La legge per il Cristianesimo si riassume praticamente nella carità, nel vivere in modo concreto l’unione fraterna fra noi: viverla con uno scambio frequente, anche epistolare, viverla con l’ospitalità generosa (che le nostre case siano sempre aperte nella misura del possibile alle nostre sorelle, ai nostri fratelli), viverla con una carità fraterna che implichi il superamento di tutto quello che può opporsi alla carità. Amor proprio, suscettibilità, invidie, gelosie, non debbono esservi fra noi. Che si possa realizzare pienamente quello che si diceva della Chiesa primitiva: siamo cioè un cuor solo e un’anima sola. Non potremo mai vivere la nostra professione religiosa, la nostra consacrazione al Signore, che in un’umile, ma sincera volontà di amarci sempre più, e di amarci sempre di più nel Signore. La carità impegna più di tutto, dunque, a vivere nella Comunità creando questa unità dell’amore che deve essere la testimonianza più alta che noi dobbiamo rendere agli altri, a coloro che vivono al di fuori della Chiesa, anche a coloro che vivono nella Chiesa, ma non vivono un impegno di perfezione religiosa. Questo dunque ci deve caratterizzare, così come caratterizzò i cristiani primitivi: «Guarda come si amano».
Ma non è sufficiente. La carità non è soltanto un amore vicendevole e reciproco che ci unisce fra di noi: è un amore, anche, che trabocca dalla Comunità e non conosce confini e raggiunge tutti, e colma, nella misura del possibile, le aspirazioni di tutti, o almeno vuol venire incontro a ciascuno in un servizio vero, concreto, umile, di amore. Prima di tutto si impone alla Comunità il vivere l’ansia, l’aspirazione di una unità di tutti i cristiani nella Chiesa una. La Comunità, dunque, deve favorire la conoscenza dei cristiani da noi separati, tanto orientali che occidentali. Deve, se sarà opportuno, stabilire rapporti epistolari e anche rapporti umani con cristiani e movimenti religiosi di altre confessioni, senza voler fare del proselitismo, unicamente perché si stabilisca questo rapporto di amore. È l’amore, se è grande, che deve stabilire poi quella unità piena che ci ricongiungerà tutti insieme nell’unica Chiesa.
(…) Ma non termina qui per noi l’esigenza della carità, legge suprema del cristiano, legge pertanto suprema della Comunità. Il traboccare della nostra carità verso gli altri ci porta a sentire profondamente il problema missionario, a studiarlo; importa che noi sentiamo il bisogno di vivere, di essere presenti in ogni luogo della terra, per rendere testimonianza di una presenza di Dio a tutte le anime, non solo ai cristiani di qui ma anche a coloro che ancora non conoscono il Cristo, ma anche a coloro che lo hanno perduto. È una esigenza della Comunità lo stabilirsi anche nei paesi infedeli, e prima o dopo la Comunità dovrà portare le sue tende al di fuori dell’Europa, in ogni continente, in ogni terra: non per fare l’apostolato diretto, ma perché è un’esigenza del nostro amore conoscere tutti, amare ciascuno, e volere l’unità con tutti, così come ognuno di noi vuole la sua unione con Dio; perché noi tutti – dal momento che possediamo la verità, possediamo il Signore, crediamo almeno di possedere la grazia – siamo debitori a tutte le anime di rendere testimonianza di questa presenza dell’amore dei nostri cuori, amando e sacrificandoci per tutti, mettendoci a servizio di tutti in umiltà, in semplicità ma nella verità.
E la legge dell’amore non termina qui, per noi, le sue esigenze: esige che ci sentiamo impegnati – ciascuno nel suo campo, ciascuno nella sua condizione e nel proprio stato, ciascuno secondo le sue possibilità, nell’esercizio della sua professione – ad un servizio che non conosce altra misura che le sue possibilità, altra misura che il dono di sé vissuto con semplicità ed umiltà ma realmente, nei riguardi di tutti i fratelli e particolarmente di coloro che sono a noi più vicini e di cui perciò possiamo conoscere più profondamente i bisogni.
Dobbiamo ricordarci che se in noi deve viver l’amore, l’amore ci impone la morte come la impose a Gesù. Non si ama mai senza morire: morire a noi stessi, ai nostri egoismi, alle nostre piccole invidie, alle nostre suscettibilità, alle nostre gelosie, alla nostra pigrizia e lentezza nel bene. Dobbiamo viver l’amore, e siamo impegnati perciò a morire continuamente a noi stessi per vivere il dono di noi stessi a ciascuno. Soltanto nel superamento continuo dei nostri egoismi la Comunità può vivere, la Comunità può essere davvero, come lo era la Chiesa primitiva, un cuor solo e un’anima sola. A questo ci impegna la nostra professione religiosa. E ci impegna poi a vivere un amore che non soltanto ci prenderà totalmente, ma crescerà sempre più nel nostro cuore fino a proporzionarci in qualche modo a Dio stesso, ci impegnerà ad amare ciascuno, non solo dentro la Comunità ma anche al di fuori: tutti i cristiani nei loro particolari bisogni, tutti i cristiani anche separati, tutti gli infedeli, gli atei, i nemici di Cristo e della Chiesa: ad amare tutti, a non avere per tutti altro che amore.
Dall’Adunanza del 4 Novembre 1962 a Firenze