Se la vita cristiana dev’esser concepita e vissuta come un ritorno dell’anima a Dio, dal quale l’anima si è allontanata per il primo peccato, San Benedetto ci dice che il ritorno dell’anima a Lui è un cammino di obbedienza.
Quanto S. Benedetto dice nella sua Regola ha un fondamento preciso ed esplicito nell’insegnamento di tutta la S. Scrittura.
Il testo fondamentale sull’obbedienza come atto di virtù che si contrappone al primo peccato, noi l’abbiamo nell’epistola ai Romani. Il primo Adamo trascinò tutta l’umanità nel peccato e nella morte per la sua disobbedienza e il secondo Adamo ecco rinnova tutta la creazione di Dio precisamente nell’atto della sua obbedienza (Rm 5, 19) è nella sua obbedienza che l’uomo viene redento, ritorna là donde per il primo peccato era stato bandito. E l’obbedienza, dice anche S. Paolo, è incarnazione di umiltà.
Tutta la tradizione patristica fa coro a S. Paolo cominciando da S. Ireneo il quale integra l’insegnamento dell’Apostolo opponendo a Eva, la prima disobbediente, la Vergine. Tutta la vita della Vergine è nell’abbandono dell’anima sua alla divina parola per cui Ella si dichiara l’ancella del Signore, pronta a compiere in tutto la sua volontà, perciò Ella si affida completamente all’onnipotenza di quella Parola che le è annunciata perché questa stessa Parola in Lei si compia, s’incarni.
Ma se questo di S. Paolo è il testo fondamentale perché più esplicitamente degli altri ci dice come la redenzione operata da Cristo sia un atto di obbedienza che si contrappone alla disobbedienza di Adamo, tutto l’Antico Testamento insiste sull’obbedienza quasi a dichiarare come sia attraverso precisamente questa virtù che l’uomo può riprendere il cammino di una redenzione, sia eletto da Dio, salvato da Lui, unito al Signore.
Prima ancora che Dio elegga il popolo d’Israele e lo faccia suo popolo nel dono di una legge che deve osservare, e nella grande storia di Abramo che noi rileviamo il peso che ha l’obbedienza alla parola di Dio. Il cammino di Abramo è determinato precisamente dall’obbedienza alla parola che lo ha chiamato, alla vocazione ricevuta.
Già in Abramo il cammino religioso dell’uomo non ha una iniziativa nell’uomo stesso, ma in Dio che chiama. Tutta l’azione, l’opera dell’uomo non è che rispondere, che obbedire, e l’obbedienza in Abramo è veramente perfetta, perché è immediata, è assoluta, disinteressata.
Immediata. Tutta la storia di Abramo nei vari suoi atti dimostra appunto questa immediata risposta dell’uomo alla divina parola. Altre volte nella S. Scrittura si vede l’uomo che indugia, che cerca di sottrarsi alle esigenze della divina volontà, pone le sue scuse, le sue riserve, le sue condizioni. Abramo, no, ed è per questo che la rivelazione divina esalta la sua figura. L’uomo non ha nulla da opporre alla parola di Dio, egli deve soltanto rispondere.
Considerate la vocazione. «Esci dalla tua terra … » (Gn 12, 1). Abramo immediatamente risponde. Considerate il sacrificio d’Isacco: Dio vuole che Abramo sacrifichi il figlio. Abramo non oppone resistenza né indugio, «sine mora», immediatamente risponde al comando di Dio: prende il figlio, prende il suo asino e va, va verso il monte, lontano, dove Isacco deve essere immolato.
È interessante notare come nella Genesi lo scrittore ispirato, se riporta il comando divino, non riporta una risposta verbale di Abramo: Abramo non perde il tempo nemmeno a rispondere con la parola. È talmente immediato il trapasso che, detta la parola, vien compiuto l’atto, quasi che l’uomo non sia da mettersi in sin toni a con Dio, non abbia da aderire a un divino comando, quasi che Abramo non abbia una sua volontà. La risposta di Abramo è come la risposta che dà il nulla alla parola creatrice: il nulla non ha un ostacolo da opporre, non ha da concordare, da aderire a Dio. E invece la volontà di Abramo è in fondo la volontà di un uomo; anche lui nasce nel peccato e perciò deve aderire ad una volontà che inizialmente gli è estranea; ma è talmente immediata la risposta, in Abramo, che sembra non costargli sforzo l’obbedienza. Non ha da mettersi in un rapporto, in sintonia col Volere divino; la parola divina attraverso di lui immediatamente passa e s’incarna, si compie e si realizza. «Instrumentum conjunctum Divinitati» egli è; certo, non in un modo perfetto come l’umanità di Cristo, come la volontà umana del Verbo incarnato, certo nemmeno con la stessa perfezione della volontà di Maria, che non ha conosciuto il peccato.
Dopo Cristo e dopo Maria, non si ha altro esempio in cui sia così immediata la risposta dell’uomo al divino comando. Le difficoltà all’obbedienza non sono poste da Abramo, sono dichiarate dalla stessa parola divina che comanda. Quando Dio comanda ad Abramo di sacrificare il suo figlio dice: «Prendi il tuo figlio, unico, quello che ami, e va’ sul monte» (Gn 22, 2). È Dio che dice tutta la difficoltà che Abramo può provare. Ma Abramo non ha da opporre alcuna difficoltà: immediatamente prende il figlio e va.
L’obbedienza di Abramo non conosce indugio, ma è anche assoluta: assoluta perché non conosce condizioni, perché non ha alcuna riserva, assoluta perché tutto egli dona. Dio può comandargli tutto: Abramo non si rifiuta, non dà una parte di sé, del suo tempo, non dà solo qualcosa: dona tutto, tutto quello che ha, tutto quello che è.
Difficilmente si hanno nella S. Scrittura manifestazioni più forti, più decise, delle esigenze divine. Dio vuole tutto, e l’uomo tutto dona. Chiede prima ad Abramo che lasci, già vecchio, il suo paese, la sua casa, la sua tribù, la nazione che ha abitato; vecchio, deve andar lontano, intraprendere un cammino verso l’ignoto, senza difesa. Uscendo dal suo popolo, dalla sua famiglia, dalla sua nazione, egli è indifeso di fronte a tutte le minacce, a tutti i pericoli: si getta in pasto alla morte. Eppure, egli risponde e la sua risposta è assoluta: non chiede una difesa, un aiuto; dona tutto, senza riserve; non sa quello che la volontà divina vorrà ancora dal lui. Va.
Dal primo atto che lo introduce nella storia all’ultimo atto che precede la sua morte, tutta la vita di Abramo è obbedienza e la sua obbedienza è assoluta: egli dona tutto, si dona tutto, totalmente si pone a servizio di Dio; non ritiene nulla per sé, né la vita né i beni, e nemmeno il suo figlio che è tutta la sua speranza, tutto il suo orgoglio, il suo amore. Quando Dio gli chiede Isacco non gli chiede soltanto quello che ha, ma quello che Dio gli ha donato, quello che era la ragione della sua esistenza. E Abramo tace, e Abramo obbedisce.
L’obbedienza di Abramo è anche disinteressata. Al principio Dio non promette ad Abramo altro che una benedizione onde sarà capo di un grande popolo, onde in lui saranno benedette tutte le genti. Ma la promessa è lontana: si esige davvero la fede per Abramo ed è anche per Abramo una cosa veramente incredibile come egli possa sperare questo da Dio. Tuttavia può sperarlo, perché è Dio che gli parla. Ma quando Dio gli chiede Isacco che cosa rimane ad Abramo? Sembra che Dio abbia voluto tutto ed ora gli tolga anche ogni speranza. Certo, Abramo può sempre affidarsi a Dio, ma ogni motivo di speranza umana ora cessa. Nella lettera agli ebrei è detto che Abramo sperava che Dio gli avrebbe donato il figlio suo attraverso la morte, ma dalla Genesi non appare questa speranza.
L’atto supremo di Abramo nel sacrificio d’Isacco è ancora un atto di speranza o è un atto di puro amore onde l’uomo offre a Dio tutto senza compenso? Sembra più giusto, stando al libro della Genesi, che l’atto di Abramo nel sacrificio del figlio sia un atto di puro amore. La conferma alle divine promesse Abramo l’avrà, ma soltanto quando avrà dato prova che non avrebbe indietreggiato nemmeno di fronte alla immolazione del figlio. Avanti di questa conferma, nell’atto che Abramo prendeva il suo figlio Isacco e andava per immolarlo. Egli sapeva, sperava veramente di poter ottenere ancora una benedizione da Dio che lo avrebbe reso fecondo, padre di popoli? Dio gli aveva fatto lasciar nel deserto, alla fame, alla sete, l’altro suo figlio Ismaele; donando Isacco egli rimane privo di ogni sostegno, di ogni discendenza. E Abramo non sa nulla. L’atto di Abramo non esclude la speranza però la speranza non sembra esplicitamente presente. L’atto del sacrificio d’Isacco è meno un atto di speranza che un atto di amore, e di amore puro, anche se questo amore non esclude la speranza.
Come, del resto, è sempre l’amore del cristiano. L’amore del cristiano può essere puro, ma non può escludere di per sé la speranza. Ma la speranza è implicita, velata, dimenticata, nascosta. «Anche se tu non mi dessi il paradiso io ti amerei». Questo è l’atto dell’anima che vive l’amore perfetto: dona tutto, e non pretende nulla per sé.
Abramo obbedisce e obbedisce per nulla. Dio poi confermerà la promessa, ma Abramo non contratta con Dio il prezzo della sua obbedienza.
Abramo inizia la storia di una redenzione, una storia di ritorno al paradiso perduto. E in Abramo, la virtù che maggiormente appare, che si rivela più magnifica, è l’obbedienza. L’obbedienza è in Abramo fede ed è amore. E lo sarà sempre, perché in concreto la nostra fede e la nostra carità non potranno mai essere, secondo l’insegnamento evangelico, che un atto di obbedienza (…).
La via del ritorno, Ed. Carroccio, pp. 52-57