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Perché molto spesso la religione, la nostra religione cioè, ha per gli altri qualche cosa di fastidioso, di puramente gratuito? Perché ha per gli altri un certo carattere farisaico o un pietismo che umilia, avvilisce la nostra umanità? Tutta la letteratura moderna è contro un certo pietismo che veramente abbassa, deprime, avvilisce l’umanità di molte persone religiose cristiane. Perché tutto questo? Mi pare che la risposta sia facile ed è questa: non si riconosce come le rivelazioni successive si radicano nelle rivelazioni precedenti. L’economia religiosa in tanto è vera, è valida, in tanto è vitale, in quanto suppone l’economia religiosa precedente e in essa si radica.

Ora, alcune volte almeno, coloro che fanno professione di essere cristiani vivono il loro cristianesimo come se questo cristianesimo non fosse radicato in una economia religiosa precedente al cristianesimo stesso. Il cristianesimo deve essere cattolicesimo non soltanto per quello che riguarda la estensione di tutti i valori, l’abbracciare che è proprio della fede cristiana di tutti gli uomini e di tutti i valori umani, ma anche è cattolico in quanto abbraccia tutti i tempi. Nessun tempo, perciò nessuna economia religiosa, nessuna esperienza religiosa può escludere.

(…) Un compito importante può essere, a proposito di questa universalità, il risentire profondamente la sacralità di tutta la vita umana; non dividere cioè più la nostra vita in atto sacrale, quale è quello, per esempio, di andare in chiesa, di fare la meditazione, e in attività invece profana.

Quello che è il compito di tutti nella Comunità e che potrebbe essere veramente una delle sue linee direttive di spiritualità è proprio questo: il voler negare, il voler escludere, il non voler accettare una divisione fra quello che è il campo sacrale e quello che è il campo profano della nostra vita, non negare cioè una sacralità anche a quella vita che normalmente noi sentiamo separata dalla nostra vita religiosa, o che noi consacriamo, ma soltanto dall’esterno, perché la offriamo o Dio. La scuola per te può essere una penitenza e allora la offri al Signore; fai questa mortificazione, ma non cerchi di trasfigurarla dall’intimo. Così per l’Anna il suonare il pianoforte, così per me lo studio: lo sento come un dovere gravoso che mi viene dall’esterno e cerco di santificarlo nell’offrirlo al Signore, non lo trasfiguro interiormente. Rimane un atto profano in sé, diviene sacro soltanto in quanto lo offro, in quanto attraverso quell’atto io esercito delle virtù di pazienza, di mortificazione, di carità magari… ma non trasfiguro l’atto in me, non lo rendo veramente preparatorio di una Comunione Eucaristica.

Ora il compito della Comunità è questo: ridare una sacralità a tutta la vita, al mangiare e al bere, al dormire e al passeggiare. Stamani venendo qua sull’automobile pensavo, di fronte alla bellezza di un paesaggio così puro, così limpido e così bello: ma perché noi non dovremmo rivelare agli uomini il senso religioso che hanno tutte le cose belle, tutte le cose buone della vita e della natura? Il nostro cristianesimo non deve essere un pietismo, non deve essere qualche cosa che sta a fianco della nostra vita naturale. Si vive, si va a passeggio e poi… si fa anche la meditazione, e poi si fa la Comunione, e poi si va anche in Chiesa e poi si dice anche l’ufficio, e poi magari si legge la Sacra Scrittura.

(…) Il compito nostro è proprio questo: sentire e dare alle cose quello che le cose già hanno, ma che il nostro peccato ha tolto loro: la sacralità. Il peccato dell’uomo, il nostro egoismo ha reso profane le cose; dobbiamo ri­tornare nel paradiso terrestre, dobbiamo ritornare all’innocenza del primo ­Adamo, perché tutte le cose veramente manifestino Dio, perché tutte le cose ci comunichino Dio.

Ritiro del 16 gennaio 1957 a Viareggio