Una collana di studi e di monografie letterarie che porta il titolo Lettere per la Toscana potrebbe sembrare, almeno a prima vista, una curiosa riproposta di glorie lontane o di cimeli culturali che la storia di questi ultimi anni tende piuttosto a confinare negli interessi di una qualche nostalgia per il buon tempo antico e valida, al massimo, per abbellire di attualità pretestuosa il narcisismo «regionale» o comunque interessato. Niente di tutto questo, per la verità, nelle nostre intenzioni. Lettere sta per Letteratura, in effetti, e ciò significa prima di tutto che nulla di sé e del mondo conosce la maggior parte degli uomini, se la letteratura non glielo mette davanti o non glielo fa conoscere. Forse l’incalzare della così detta globalizzazione, questo strumento inafferrabile e preciso di omologazione di esistenze e di sentimenti umani, ci costringe a questa difesa della memoria in un mondo sempre più attanagliato nell’oblio, mentre, allo stesso tempo, ci fa sentire il desiderio di una buona e sana letteratura che ci parli delle nostre identità più profonde e più radicate nelle ragioni della vita, della bellezza e della verità. Certo, a ben guardare la nostra situazione attuale e italiana in particolare, essa non sembra essere così favorevole a queste declinazioni dell’anima che aspirano all’infinito, agli orizzonti di senso in cui l’esistenza umana è un bene da coltivare, non già un possesso di piacere e di soddisfazioni da spremere fino all’osso. Questa corsa, forsennata e folle, per inseguire esperienze e luoghi dove l’io consuma se stesso in uno stordimento senza porte né finestre verso l’esterno, produce una chiusura che facilita l’oblìo della nostra anima e di quella degli altri, l’oblìo anche di coloro che hanno molto da dirci sul nostro presente, mentre tutto questo mondo scintillante di piacere e di pronta risposta ai nostri bisogni, assai sollecitato dalla vita civile e politica, rende la vita un nodo inestricabile di inquietudini e di mutamenti senza coscienza e senza consapevolezza. Contro questo oblìo, resta forse ancora il miracolo della poesia, il ricordo degli scrittori che hanno attraversato la nostra storia a occhi aperti, per così dire, e senza mai rinunciare alle ragioni della vita, della bellezza e della verità.
«Lettere per la Toscana», dunque, vuole pagare un debito ad una stagione alta ed esemplare della letteratura attiva a Firenze (ma non solo a Firenze) negli anni ’20 e ’30 del Novecento, per due ragioni che ora ci sforzeremo di precisare. Innanzitutto, un’idea di letteratura che l’oblìo del nostro tempo tende a cancellare. Leonardo Sciascia l’ha mirabilmente definita in una pagina del suo libro Nero su nero (1979) ove si domandava, appunto, il senso della letteratura per la nostra vita personale e civile: «Forse è un sistema di oggetti eterni (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare». In Letteratura, allora, il mito – o forse è meglio dire la mitizzazione dell’oggetto e del rapporto sentimentale con l’oggetto – fa in modo che la banalità o la semplicità di un evento, di un’occasione, di un oggetto in senso lato, diventi verità, originalità, forza espressiva, poiché la presenza del mito svela o porta alla superficie quella verità nascosta, ma comunque universale, che è racchiusa negli eventi interiori ed esteriori. Così, nel momento della creatività, l’artista crede profondamente alla verità di quel sentimento che lo lega agli eventi che racconta o vive, fino a entrare nell’ambito del mito. Senza questa fede che investe il sentimento creativo non c’è creazione artistica. In altre parole, la forma artistica del mito è principalmente un «dramma» che ha a che fare con forze e con caratteri che sfuggono alle semplici leggi della ragione calcolatrice e pragmatica (T.S. Bruner). Si spiega così perché negli anni ’20 e ’30 del Novecento, come ha notato recentemente Giovanni Raboni, è nata tutta una generazione di grandi scrittori che vivevano proprio quel grande dramma civile e culturale che sarebbe sfociato nella tragedia italiana del fascismo. In realtà, nella creazione letteraria, si tratta sempre di un dramma realistico che, per dirlo con R. Wellek e A. Warren, «parla di origini e di destini», e insomma racchiude «le spiegazioni che una società può offrire ai suoi giovani della causa e dei significati del mondo, dei valori e dei fini delle nostre azioni, e le sue immagini pedagogiche della natura e del destino dell’uomo» (cfr. R. Wellek-A. Warren, Teoria della letteratura, tr. it. il Mulino, Bologna 1999).
Tuttavia, se nella letteratura di un certo nostro passato il mito ricadeva sulle cose e sugli eventi, dopo gli anni ’60 e cioè con il boom economico, quel mito ricade sempre di più sulla parola e sul segno. Invece di voce del soggetto, dell’artista, la parola diventa anche oggetto da mitizzare, fermando la volontà creativa al di qua dell’oggetto o dell’evento. Insomma, oggi si scrivono fiumi di parole formando grumi di significanti che «lungo la narrazione sembrano giustapposti invece che consequenziali, e che assomigliano a una manciata di perle finte buttate in un vaso e non a una corda tesa come invece dovrebbe essere» (M. Vichi). Questo mito della parola genera alla fine una letteratura che vuole risolvere in ogni periodo, se non in ogni parola, il valore della letteratura stessa, ignorando che ogni corpo è formato da molte parti e che da sole non possono mai diventare un corpo intero. Si tratta di una specie di spostamento dall’argomento allo strumento per cui si affida il compito di costituire la letteratura alla parola consapevole, alla parola in sé, quasi fosse l’unico elemento e l’unica potenza espressiva. Ma, la parola, anche se bella, da sola non è sufficiente a diventare letteratura. Cosa sapremmo degli abissi dell’animo umano, infatti, senza aver letto Dante o Shakespeare? Cosa saprebbe un italiano dell’Italia senza aver letto Manzoni, Sciascia, Pasolini? Ma non è soltanto questione di conoscenza o di comprensione della realtà. La letteratura è una dimensione parallela a quella della vita, per cui entrambe tendono a sovrapporsi formando la coscienza del lettore a una presa più diretta e profonda di ciò che si agita nel cuore umano e nella società.
La seconda ragione ha ancora a che fare con la nostra situazione italiana e in cui la crisi della letteratura non è altro che il sintomo di una ben più grave malattia. Strano e difficile paese l’Italia! Appena ieri infatuato di marxismo, di anarchia, di liberalismo, oggi altrettanto infatuato di individualismo, di buddhismo, e perfino attratto dal credo e dal costume musulmano così, tanto per semplificare. Come ha scritto Alfonso Berardinelli in un saggio a più mani che, temiamo, non sia mai diventato un best-seller (cfr. A. Berardinelli, Nel caldo cuore del mondo. Lettere sull’Italia, Libri LiberaI, Firenze 1999), «si ha l’impressione, se non la certezza, che l’Italia stia finendo, da anni non smetta di finire, di consumarsi e deteriorarsi, e i presupposti della democrazia, quelle esperienze che hanno ispirato la nostra Costituzione, siano ormai una cosa sbiadita e remota nella coscienza collettiva» (p. 5). Nel suo dialogo, infatti, con Ceno Pampaloni, Sandro Veronesi e Andrea Zanzotto, Berardinelli deve constatare che non esiste in Italia una cultura del «legame sociale» e quando parliamo di politica e di valori, di etica pubblica e di rinnovamento democratico, dimentichiamo e ci nascondiamo quello che i nostri occhi vedono tutti i giorni. La diagnosi è impietosa, quanto seria e motivata: «siamo forse la popolazione più rumorosa del mondo – scrive ancora Berardinelli -, una delle più prive di senso civico, una delle più indifferenti all’ambiente nel quale (sembra) non ci accorgiamo neppure di vivere» (p. 7).
Alfonso Berardinelli, insomma, teme giustamente che non solo in Italia ma in tutti i paesi più ricchi, stia venendo meno il «senso di realtà» soprattutto nelle generazioni più giovani che, probabilmente, non hanno mai troppo lottato per avere o conservare un briciolo di libertà o di dignità. Certo, in tutto questo, c’è il ruolo decisivo giocato dalla televisione e dalle altre tecnologie comunicative. L’intera realtà sembra mediata dalle immagini che compaiono sul video e nessuna forma di cultura è oggi paragonabile al potere che riveste la televisione. Anche le persone più colte ne subiscono il fascino, obbediscono ai suoi imperativi, si sottomettono volentieri alla sua logica così, la maggioranza della popolazione, quella che, secondo le statistiche, legge meno di un libro l’anno, di fatto ha ben poche difese: per questo tipo di pubblico, che è il più vasto e dunque quello che impone la sua «cultura», le immagini televisive sono tutto, «sono quasi la sola cultura accessibile» (p. 8). Non stupisce, allora, che ora il nostro sia un Paese «abitato non tanto da cittadini, quanto da consumatori, telespettatori e automobilisti, nonché dalla classe media forse più culturalmente impotente e deforme del mondo occidentale» (p. Il).
Se abbiamo ripreso qui, a grandi linee, questa analisi di Alfonso Berardinelli non è tanto per indulgere a quelle lamentazioni che, periodicamente, sembrano affascinare le persone colte, subito smentite dagli ottimisti di turno e in vena più che altro di attirare l’attenzione in senso contrario. Questa analisi, in realtà, non può che inquietarci e addolorarci tanto è pertinente e realistica soprattutto nel perno che la regge: l’alienazione italiana – il non sapere chi siamo – si è cristallizzata a partire da quei fatidici anni’60 che, in letteratura, vedevano l’insorgere della così detta neoavanguardia e, in politica, di quella nuova sinistra che non voleva più saperne degli specifici problemi italiani di lunga data. E oggi questa situazione di crisi dell’identità italiana non è solo politica ma soprattutto culturale.
Da qui il nostro tentativo di riannodare i fili con quella memoria, con quella tradizione che il dopoguerra ha voluto a tutti i costi cancellare e sia pure nel tentativo di eliminare l’odore triste del sottosviluppo. Gli anni fra le due guerre mondiali furono un momento speciale nella vicenda plurisecolare dei soggiorni che, da sempre, artisti e scrittori hanno donato a Firenze e alla Toscana. E furono un momento speciale anche per quella generazione di scrittori e poeti italiani che allora pensavano di costruire con la letteratura e con la cultura un’Italia consapevole della propria dignità e per questo più democratica. A quegli anni, dunque, si limita il nostro ricordo di «Lettere per la Toscana», senza dimenticare che furono solo un episodio di una storia ben più lunga che risale all’Alfieri, al Foscolo e al Manzoni, un segno che, nella modernità infelice, tutti o quasi furono a Firenze e, come ha notato lucidamente Pier Francesco Listri, «quasi tutti ne presero; qualcosa vi lasciarono». E basterebbe fare i nomi di Eugenio Montale, Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Giacomo Noventa, Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi, Umberto Saba, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo, Giorgio La Pira. E proprio quest’ultimo, negli anni ’50-’60, non solo caldeggerà l’immagine di Firenze quale «città sopra il monte», ma organizzerà quegli incontri internazionali imperniati sulla letteratura a cui parteciperanno teologi come Jean Daniélou e grandi poeti come Leopold Senghor. Giorgio La Pira portò Firenze al centro della cultura internazionale e del problema della pace nel mondo. Giorgio La Pira, in altre parole, aveva intuito, per formazione e per spiritualità, il grande ruolo che poteva rivestire la letteratura per costruire un’identità italiana più consapevole di sé, delle proprie rovine e dei propri ideali, e dunque più solidale nella sua struttura interna e, per conseguenza, aperta al mondo, al mondo migliore. Un’intuizione che, purtroppo, non sembra essere stata seguita dalla Chiesa italiana, almeno in quegli anni di durissimo scontro tra le varie ideologie in campo, ma che meritava di essere seguita come ormai dimostrano gli eventi contemporanei.
Di fatto, nella Firenze, «città sopra il monte», degli anni ’20 e ’30, dove si formarono riviste come «Il Frontespizio» ed esperienze artistiche ad alta temperatura antropologica e civile, la letteratura continuava a essere un fatto centrale nella vita di molte esistenze di giovani ansiosi di dare alla loro vita un nobile significato. Forse la letteratura doveva guadagnarsi questo spazio, ma in ogni caso aveva un ruolo molto alto perché, come ricordava proprio Geno Pampaloni, credere nella letteratura aveva a quel tempo un significato quasi salvifico: «letteratura come vita – scriveva Pampaloni nella sua lettera di risposta ad Alfonso Berardinelli – la scoprimmo prima che Carlo Bo ne chiarisse il senso e le ragioni. Era la nostra certezza, o addirittura la nostra identità. Le affidavamo il fondamento del nostro destino. La letteratura era, detto brevemente, il nostro remedium solitudinis. Con una duplice ricchezza: che ci spingeva alla solitudine, e ci salvava dalla solitudine» (cfr. Nel caldo cuore del mondo, op. Cit., p. 15). Molti giovani e aspiranti scrittori si rifacevano in quegli anni proprio a quegli scrittori degli anni ’20 e ’30 che mostravano una continuità e un’affinità con l’Europa più seria che si trovava di fronte alla minaccia dei totalitarismi e della perdita della libertà e della dignità umana. Quella letteratura italiana ed europea era al tempo stesso la realtà e l’antirealtà, nel senso che essa agiva come antidoto segreto alle menzogne della realtà. Forse, come riconosceva ancora Pampaloni, non era probabilmente una grande letteratura, ma aveva nel sangue i globuli rossi di una tradizione nobile. E soprattutto mi sembra che ci fosse allora un senso delle gerarchie di valore che oggi appare offuscato. Oggi c’è un sovrappiù di informazione che ha preso il posto della consapevolezza di quelle gerarchie» (pp. 15-16). Quelle gerarchie erano la vita, la bellezza, la verità, ma quelle gerarchie non si costituiscono, aggiungiamo noi, senza dare importanza alle esperienze personali. Così, l’analisi di Pampaloni si congiunge, nonostante la diversità di generazioni e di esperienze formative, a quella di Berardinelli: la televisione crea una comunità astratta infrangendo proprio l’importanza dell’avventura personale. La televisione è veicolo, dopo tutto, di una cultura annacquata, sbiadita, priva di esperienze collettive profonde. Una cultura, insomma, che diviene ogni giorno più cosmopolita, mentre trascura le identità nazionali o di gruppo, e soprattutto autenticamente personali. Il culto del consumo, si direbbe, cancella il passato italiano e toglie allo stesso tempo la memoria.
Eppure, come sempre, la postmodernità manda segnali contraddittori e non facili da decifrare, ma comunque sempre segnali: anche oggi, nonostante il trionfo del consumismo o del culto del tutto e subito, migliaia di giovani in Italia coltivano il sogno della scrittura letteraria, affidando alla carta le loro poesie, i loro racconti, la loro ricerca insomma di una identità creativa e non già omologata. Tanto è vero che, specialmente d’estate, si moltiplicano i concorsi letterari che cercano di catturare l’attenzione di questi aspiranti poeti e scrittori, naturalmente a pagamento! È un mondo, sommerso e variegato, quello di questi giovani che sognano un futuro nella letteratura. Un mondo che nessuna indagine sociologica, almeno a quello che ci è dato di sapere, ha mai scandagliato o osservato da vicino, forse perché facilmente catalogato nei sogni destinati a restare nel cassetto. Certo, molti di questi giovani, crescendo a contatto con un mondo duro e impietoso, non esitano a un certo punto a mettere davvero questi sogni nel cassetto. Ma altri sembrano resistere e magari, con l’aiuto della famiglia, riescono a pubblicare a loro spese qualche libro che non sanno, tra l’altro, a chi indirizzare, tanto il deserto intorno sembra fitto e compatto. In ogni caso, questo timido e trepido sbocciare di una creatività personale (e dunque dell’avventura personale) rischia di perdersi anche per mancanza di un’adeguata cultura personale, vale a dire di quella cultura delle radici che sviluppa una pianta nuova.
Il talento, persino la sensibilità espressiva o poetica, non basta da solo se non è innestato nelle radici di una tradizione culturale, se non viene alimentato da ciò che, in astratto, potremmo chiamare una comunità creativa, rappresentata proprio da una determinata tradizione letteraria. Ogni tanto, a dire il vero, l’industria culturale lancia, per così dire, la firma letteraria di qualche giovane, uomo o donna, ma leggendo attentamente ci si rende conto che quel romanzo manca, appunto, di radici letterarie e anzi testimonia quel mito della parola di cui dicevamo più sopra. Eppure, in mezzo a questi giovani, ragazzi e ragazze, c’è sicuramente qualcosa di più che una semplice predisposizione adolescenziale alla scrittura, ma questo qualcosa rischia di inaridirsi per mancanza di aiuto e di attenzione. Un tempo – e siamo ancora alla generazione degli anni ’20 e ’30 del Novecento – scrittori e poeti già in qualche modo affermati non esitavano ad aiutare e incoraggiare con ogni mezzo questi giovani che mostravano la scintilla della creatività. Volevano giustamente un futuro per la letteratura. Oggi questo futuro sembra minacciato dal fatto che non aspettiamo più nulla e nessuno, e anzi ci sembra quasi mostruoso che nel nostro futuro possa esserci, magari diverso, un nuovo Leopardi o un nuovo Manzoni.
Contro questa mentalità o cultura del nulla, «Lettere per la Toscana» sogna ancora un futuro. Sarà magari un altro segnale timido e impacciato, forse velleitario rispetto a tutti coloro che sanno come vanno le cose nel mondo, ma in ogni caso un segnale di speranza per quella letteratura che in Italia, nonostante tutto, ha rappresentato un’insostituibile e tenace richiamo alla vita, alla bellezza e alla verità. Questa speranza nessuno può togliercela. La si può ignorare, ma essa esiste, purché non la si confonda con la rincorsa al successo o al riconoscimento immediato e ben pagato. La speranza è una qualità dell’anima, come ha detto e ripetuto sempre Mario Luzi, e come tale essa non si trova a buon mercato. Ha sicuramente un prezzo, ma questo prezzo è vero solo nell’ordine del coraggio e della lealtà verso se stessi e verso gli altri. Tuttavia, la speranza, ogni speranza non viene dal niente: essa richiede attenzione e cioè devozione.
In effetti, «l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima», diceva Nicolas Malebranche, libero discepolo al tempo di Cartesio e di Bérulle. Così, in una cosa tutta umana, in questo movimento dell’intelligenza o del cuore, nell’attenzione appunto, nell’ansia della verità, avviene qualcosa di divino. Prima della religione, prima del pensiero religioso (anche confessionale), nel cuore della vita più elementare dell’intelligenza umana, c’è dunque lo Spirito al lavoro: che si tratti di mirare e centrare il bersaglio in un ragionamento o durante la caccia che sfamerà la famiglia, che si tratti di trovare la verità di un sentimento, di una situazione quotidiana o di una proposizione scientifica, l’uomo, la sua ragione e il suo cuore, la sua intelligenza e la sua perspicacia sono plasmati dall’interno, attratti in un movimento vigoroso, energico, verso un «Oggetto» che chiama e al quale non si può fare a meno di rispondere. Questa attenzione, questa ricerca assetata di verità e di bellezza, in un mondo tutto concentrato nell’ipocrisia del compra e vendi, è proprio una preghiera «spontanea», puramente umana potremmo dire, senza dubbio inconsciamente diretta dallo Spirito – discreto e che mantiene il segreto – verso l’Altro per eccellenza nel quale tutto è verità e vita. Come spiegare altrimenti l’affermazione di tanti scrittori e artisti circa la natura religiosa del loro temperamento creativo? Come spiegare, tanto per fare un esempio, l’affermazione di Luigi Pirandello in una lettera del 1927, scritta da Agrigento, al critico Silvio D’Amico, riportata da Leonardo Sciascia nel suo Alfabeto pirandelliano, dove l’autore di I vecchi e i giovani così scriveva: «lo sono religiosissimo, caro Silvio: sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento»? E Sciascia, altro temperamento fortemente religioso, anche se critico nei confronti della religione confessionale, annota con uguale slancio lirico: « … e c’è da immaginarlo allo scrittoio di quella camera d’albergo, il balcone aperto all’aria della primavera, all’effluvio delle varie fioriture, all’esplosione dei colori, alle splendide rovine della città dorica» (cit. in Matteo Collura, Alfabeto eretico, Longanesi, Milano 2002, p. 152). In uno scrittore autentico c’è sempre questa sete di verità che si manifesta soprattutto in un’ansia inesauribile di bellezza e di vita. Quest’ansia di vita, di bellezza e di verità è la piena ed esatta consapevolezza del sentirsi scrittore, delle ragioni per cui si scrive. Meglio, della ragione e del cuore, per cui si scrive.