(*) Preside della Facoltà teologica di Sicilia in Palermo.
Questo volume raccoglie i contributi di riflessione sulla figura e l’opera di Divo Barsotti che gli autori hanno proposto in occasione del convegno di studi celebrato a iniziativa della Fondazione Divo Barsotti e della Facoltà teologica di Sicilia a Palermo nella sede della stessa Facoltà nei giorni 7 – 8 aprile 2000 e (per due di essi: Petrà e Baldini) in occasione della laudatio di don Barsotti per l’assegnazione del premio del M.E.l.C. il 6 maggio 2000 nel Battistero di S. Maria in Fiore a Firenze.
Nel suo insieme il volume offre un ventaglio di analisi e di valutazioni che copre diversi aspetti e momenti della produzione di Barsotti: dal rapporto con la teologia del Novecento al confronto con l’Oriente cristiano, dalla centralità della liturgia alla riflessione sulle religioni nel loro rapporto col cristianesimo, dal radicamento nella teologia patristica all’apertura alle tematiche più vive del pensiero contemporaneo. Certamente, il volume non affronta tutta l’ampiezza e la ricchezza di quanto il sacerdote toscano ha pubblicato ed anche per gli aspetti e le tematiche prese in esame non esaurisce lo studio e la riflessione. Intende semplicemente partecipare di un’attenzione di studio alla produzione barsottiana di cui già altri studiosi si sono fatti iniziatori. 1
L’opera di Barsotti merita quest’attenzione. Si può dire, anzi, che essa giunge con qualche ritardo. È noto il giudizio che Gregorio Penco diede oltre vent’anni fa del magistero spirituale di Barsotti: «è senza dubbio [ … ] il più importante autore italiano del nostro secolo, conosciuto ed apprezzato anche fuori d’Italia». 2 Si può discutere su questo giudizio espresso con tanta assolutezza. Credo però che nessuno possa negare l’udienza straordinaria che Barsotti ha ottenuto in Italia e fuori. È stato ed è indubbiamente tra gli autori spirituali più letti in Italia e tra i pochi italiani che è stato tradotto e letto anche fuori d’Italia e ciò non da ora ma dagli anni Cinquanta, quando ancora, prima del concilio, come ha scritto Hans Urs von Balthasar, nell’introduzione all’edizione tedesca de La fuga immobile dello stesso Barsotti, in Italia «non si sentiva il movimento liturgico e [ … ] l’esegesi e la teologia, almeno per ampi settori, [avevano] tanto da recuperare ».3 Nonostante il lamento che percorre tante pagine dei diari di Barsotti sull’isolamento in cui egli viene lasciato nella Chiesa italiana, sul mancato affidamento a lui o anche solo riconoscimento di una qualche missione e sulla diffusa indifferenza verso la qualità propriamente teologica della sua produzione, egli è stato apprezzato da tanti e i suoi libri sono stati sempre letti con ammirazione e interesse. Carlo Bo lo definì «uno degli spiriti più alti del nostro tempo». 4 E il suo non è affatto un giudizio isolato. Anche da parte degli intellettuali laici non è mancato l’interesse per la produzione di Barsotti. Montale certamente lesse il suo diario La fuga immobile e il riferimento al volume è esplicito in una delle sue poesie, Lettera a Malvolio, in cui però don Barsotti è letto sotto il segno dell’impegno sociale e politico dei cattolici – a Firenze esemplarmente rappresentato da Giorgio La Pira, il «sindaco santo» – e, per questo motivo, anche un po’dileggiato: «Ma lascia andare le fughe ora che appena si può/ cercare la speranza nel suo negativo. /Lascia che la mia fuga immobile possa darci forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta/ che la partita è chiusa per chi rifiutai le distanze e s’affretta come tu fai, Malvolio/ perché sai che domani sarà impossibile anche/ alla tua astuzia ».5 E, comunque, resta che le edizioni dei volumi di Barsotti sono state tante e il suo nome non è stato e non è affatto in Italia quello di uno sconosciuto. La sua opera ha avuto un’influenza lungo tutta la seconda metà del Novecento che apparirà sempre più chiaramente negli anni prossimi, man mano che diventeremo più capaci di un distacco critico.
Ci si potrebbe chiedere il motivo della vasta udienza ottenuta dalla produzione di Barsotti. Per una risposta articolata e argomentata, bisogna distinguere due momenti: prima e dopo il concilio. Negli anni prima del concilio l’opera di Barsotti ha avuto una importante e delicata funzione di rinnovamento del linguaggio e dell’esperienza spirituale cristiana. Opere quali Il mistero cristiano nell’anno liturgico del 1950, Il mistero cristiano e la Parola di Dio del 1953, La rivelazione dell’amore del 1955 e i commenti biblici di quegli anni, prevalentemente su libri dell’Antico Testamento, ma anche il bel volume sul Cristianesimo russo del 1948 e il diario La fuga immobile del 1957, sono state davvero innovative nel panorama del cattolicesimo italiano degli anni Cinquanta. Parlavano un linguaggio nuovo e diverso, in cui s’avvertiva l’eco non solo della migliore e più viva produzione teologica straniera ma anche di tradizioni di spiritualità cristiane non latine, quale appunto quella russa, allora quasi del tutto sconosciuta in Italia, e in cui traspariva una travolgente esperienza di Dio assai distante dalle preoccupazioni politiche e dai progetti di “nuova cristianità” che allora animavano e assorbivano la cattolicità italiana. Sono stati libri che – come permettono di verificare i contributi raccolti in questo volume – hanno rappresentato una ventata di novità a fronte dei manuali della teologia scolastica che si studiavano nei seminari, hanno mediato in Italia i fermenti della riflessione teologica particolarmente francese (Bouyer, de Lubac, Danielou, ecc.), hanno richiamato all’importanza del contatto assiduo con la Scrittura da leggere nella tradizione dell’esegesi spirituale dei Padri ma facendo tesoro anche dell’esegesi storico – critica, hanno fatto riscoprire la centralità nell’esperienza cristiana della liturgia, del mistero del Cristo risorto, vivo e presente nella celebrazione dei segni sacramentali. Come acutamente s’accorse Balthasar, nelle sue opere preconciliari, Barsotti mostra in fondo il rifiuto di un cattolicesimo irrigidito, spiritualmente povero e storicamente stanco, ed anzi, usando le stesse parole del teologo svizzero, una vera e propria «intolleranza verso le realtà ecclesiali irreggimentate» e una «volontà – che si riconosce obbediente nei confronti di una chiamata – di rinnovare il cristianesimo partendo dalle posizioni più fondamentali ».6 Ed è stata, in fondo, la rispondenza ad una silenziosa ma diffusa attesa di rinnovamento spirituale che ha assicurato alla produzione di Barsotti una buona accoglienza nella cattolicità italiana di quegli anni.
Il secondo momento sono stati gli anni del dopoconcilio, quando don Divo Barsotti è sembrato polemizzare in qualche modo con lo stesso concilio e assumere posizioni conservatrici, e in cui, invece, intendeva semplicemente mettere in guardia dai rischi di un’affrettata e superficiale applicazione dei testi conciliari e, soprattutto, di un appiattimento della Chiesa e dello stesso cristianesimo su programmi intramondani di benessere sociale e di pace universale. In quegli anni ricordava con accorata insistenza che «il frutto vero del concilio non può essere il rinnovamento della Chiesa se non è prima il rinnovamento dei cristiani. La Chiesa non è una costruzione prefabbricata che pezzo per pezzo si può smontare e rimontare a nostro piacere ma è un organismo vivo animato dallo Spirito Santo»7 e affermava che «voler trasformare il cristianesimo in uno strumento di potere umano per il progresso della cultura, per la pacificazione dei popoli, per il benessere degli uomini, è semplicemente distruggere il cristianesimo », perché «la Chiesa esiste per donare Dio a tutti gli uomini e portare a Dio tutti gli uomini. È ben altro che battersi per la giustizia sociale, la promozione umana, i diritti dell’uomo, la pace nel mondo [ … ]. Il cristianesimo può essere a servizio di questo mondo, ma prima di tutto è promessa e dono di una vita divina, superamento di ogni condizionamento terrestre ».8 È stata questa la lezione che Barsotti ha ripetuto negli anni Settanta e Ottanta in modo particolare, «senza rumori, senza mai aver preteso di diventare né un rinnovatore né una bandiera».9 Una lezione accolta ed anzi ricercata da quanti si accostavano alle sue pagine « per passare di colpo in un altro mondo, alla luce di una verità sentita e pagata giorno per giorno, dal di dentro».10
Ma quegli anni sono stati fecondi anche, tra l’altro, di un importante recupero e approfondimento da parte di Barsotti della tradizione di santità italiana e particolarmente di quella dell’Otto – Novecento. I suoi scritti – spesso motivati da occasioni contingenti – su personalità cristiane eminenti del cattolicesimo italiano in età contemporanea quali Giuseppe Toniolo, Armida Barelli, Contardo Ferrini, don Orione e tutta una schiera di figure anche minori delle Chiese diocesane di un po’ tutte le regioni d’Italia Il hanno portato ad una ricomprensione di queste figure, di cui la ricerca storica, come ha messo in evidenza Giovanni Moioli,12 deve essere grata a Barsotti. È una ricomprensione che nasce dall’analisi della dimensione propriamente spirituale della testimonianza cristiana di queste figure. Si tratta di personalità «attive », portatrici di un disegno di intervento nella società in nome del Vangelo, ma, come mostra nei suoi saggi Barsotti, il metro della validità dell’azione non è dato nella loro esperienza dall’efficacia della stessa azione ma dal fatto che essa risponde ad una missione affidata da Dio. Essa è grande non perché mira a risultati o ottiene risultati ma perché è ricerca e adesione alla volontà di Dio. Lo storico ha da studiare la testimonianza talvolta impressionante del sentimento di abbandono a Dio da parte di queste figure, e non solo e non tanto esaltare il loro contributo più o meno efficace alla modernizzazione della società, secondo l’ottica di lettura di tanta storiografia anche cattolica degli anni Settanta e Ottanta. E quest’apporto di rilettura storica e di riassunzione vitale del patrimonio spirituale del cattolicesimo italiano, in anni in cui invece nella Chiesa italiana diveniva quasi una moda la scoperta della spiritualità bizantina, è solo un aspetto della produzione barsottiana negli anni dopo il concilio. C’è un tratto che lega e unifica la produzione di Barsotti lungo l’intera seconda metà del Novecento nelle due diverse fasi che ho evidenziato? E un tale tratto unificante ha un rapporto con l’accoglienza che i libri di Barsotti hanno avuto, la può spiegare?
Mi sembra che una risposta a queste domande debba partire dal riconoscimento che l’opera di Barsotti risulta intimamente intrecciata con la vicenda del cattolicesimo italiano, a cominciare da quello fiorentino con il suo straordinario circolo di personalità cristiane degli anni Cinquanta (il cardinale Elia Dalla Costa, il sindaco Giorgio La Pira, il parroco Giulio Facibeni, ma anche l’ultimo Papini, Ernesto Balducci, Davide Maria Turoldo, Mario Gozzini). Molta della produzione di Barsotti va compresa in qualche modo all’interno del quadro del colloquio ed anche dello scontro tra le posizioni diverse che emersero in questo vivacissimo mondo cattolico fiorentino, ricco di fermenti innovatori, che contrastava con il panorama di sostanziale povertà del cattolicesimo italiano, sotto l’aspetto culturale, di quel tempo. L’influenza di Barsotti si iscrive, almeno all’inizio, nel raggio di influenza che il cattolicesimo fiorentino del tempo esercita nel Paese e di essa partecipa, rappresentandone un momento pur dotato di una propria inconfondibile peculiarità. Ma Barsotti – l’ho rilevato – riceve un’attenzione che va al di là degli anni Cinquanta e supera la svolta conciliare. Si crea un rapporto tra Barsotti e i suoi lettori che ha motivazioni proprie, che si emancipa dal legame originario con l’ambiente fiorentino. Certo, come ho prima notato, questo prolungarsi ed anzi estendersi dell’attrattiva esercitata da Barsotti si spiega con la sintonia che egli riesce a stabilire con le attese e le inquietudini di un vasto pubblico di lettori, che sono diverse tra prima e dopo il concilio. Forse il pubblico dei lettori di Barsotti muta dopo il concilio. Certamente s’allarga. Egli sa rispondere alle domande profonde della cattolicità italiana nel suo travaglio postconciliare. E per questo incontra cerchie di lettori più vaste. Ma è anche evidente che i lettori – anche e specialmente nel dopoconcilio – cercano e trovano nei suoi libri quella testimonianza di un’alta esperienza spirituale che era così viva già nelle opere degli anni Cinquanta.
Nella sua produzione – quella di maggiore impegno dominale o di contenuto più autobiografico ma anche quella di tono più familiare e dallo stile piuttosto “parlato”, frutto del suo intenso ministero di predicatore – si ricerca sì il suo giudizio sugli eventi del tempo, si attinge una visione teologica che salda intimamente Bibbia e liturgia, si trovano stimoli straordinari per l’approfondimento del patrimonio culturale del cristianesimo orientale ed occidentale, ma soprattutto si cerca e si trova l’invito ad una comunione personale sempre più viva e sempre più vera con Dio. Si trova una testimonianza di Dio. È questa testimonianza il tratto che lega unitariamente la sua produzione e che, nello stesso tempo, meglio spiega la continuità d’attenzione alla sua opera. Lo stesso don Divo Barsotti ha mostrato di avere precisa e chiara consapevolezza del carattere di testimonianza della sua produzione, in cui non a caso spiccano i volumi dei suoi diari, che sono come un deliberato esporsi nell’intimità della propria personale ricerca di Dio, un parlare di Dio agli uomini del proprio tempo sulla base di una personale esperienza di Dio. Scrive all’inizio del suo volume Parola e silenzio:
Rileggo il mio diario del 1955 – 57 per pubblicarlo. Debbo giustificare la sua pubblicazione? Sento che debbo pubblicarlo. Parlare di Dio e del suo rapporto con noi, può essere presunzione ed orgoglio. Ma è prima di tutto, per ognuno di noi, la propria missione. Una missione che ci espone al ridicolo, forse, che comunque può sempre, invece che motivo di orgoglio, esser motivo di confusione e soprattutto di condanna. Ma prima di tutto è impegno di rendere testimonianza. Come spesso, sotto il pretesto di umiltà, noi ci vergogniamo di Dio! Non osiamo fare il suo Nome perché, sì, come professionisti del culto è abbastanza facile presentarci dal momento che come professionisti del culto il mondo, bene o male, ci ha già accettato, ma ci pesa sembrare degli illusi, e soprattutto degli ingenui. Eppure sfidare il ridicolo non è proprio dell’uomo religioso, del testimone di Dio?13
Ed ancora nella postfazione dello stesso libro, Barsotti torna a interrogarsi sul senso del suo scrivere di Dio non come professionista del culto ma come protagonista di un’avventura spirituale:
[…] è sempre di cattivo gusto parlare di sé e soprattutto rivelare i segreti più intimi. Un pudore istintivo ci impedisce di parlare e il rispetto per l’altro ci impedisce l’ascolto. La parola più intima dell’uomo è la preghiera. Così la nostra vita realmente non parla che a Dio. Per questo deve terminare nel silenzio. È forse, sul limitare del mistero, un ritorno alla terra, agli uomini, questa volontà che anche altri ci ascolti, o piuttosto è coscienza che non si vive mai la nostra avventura con Dio quasi ci separasse dagli altri e non ci facesse vivere invece più intimamente con loro, il dovere di rendere conto di questa avventura come di una missione che proprio per loro abbiamo ricevuto e della quale dobbiamo rispondere? Sì, la missione è la stessa testimonianza. [ … ] Una sola è la parola che [oggi] si impone: il testimone deve, con la sua medesima vita, dimostrare la verità. Certo, questo impegna l’uomo a essere più che uomo, lo impegna all’eroismo più alto, alla santità più luminosa [ … ]. Solo la santità ha il diritto di parlare perché solo la testimonianza del santo è verace. Ma come queste parole mi turbano! Non dovrei, proprio per questo, tacere? Come giustificare la presunzione di aver voluto parlare? E tuttavia questa è la missione che ho ricevuto e alla quale io debbo rispondere anche a rischio che gli uomini ridano di me. 14
Tutta l’opera barsottiana è sotto il segno dell’ubbidienza a una missione ricevuta. Un segno che dà un timbro esperienziale ai suoi scritti. Ed è questo che fa la peculiarità della figura di Barsotti nel quadro della cultura cattolica italiana della seconda metà del Novecento. Credo che si possa estendere a tutta la produzione di Barsotti il giudizio che Balthasar diede del contenuto de La fuga immobile:
[ … ] è il contrario di un manuale [ … ]. Non vi si trovano delle formule definite [ … ] le parole troppo usate (come penitenza, ascesi, esperienza e molte altre) vengono totalmente spogliate di ciò che è abitudinario e acquistano anche per noi suoni non più uditi da lungo tempo; le cose vengono immerse in una fontana che ridona loro la giovinezza, e ne riemergono con uno splendore di mistero e anche con quel richiamo bruciante che le rende nuovamente credibili: prima per noi stessi e di conseguenza anche per i non – cristiani e per il mondo. Potremmo essere cristiani oggi in un altro modo? 15
Seguendo il suggerimento implicito nelle parole di Balthasar, gli autori di questo volume hanno cercato di trarre la lezione di verità per la nostra vita di cristiani di oggi che viene dal magistero di Barsotti. «Potremmo essere cristiani oggi in un altro modo? », cioè senza il superamento di ciò che è abitudinario e non autentico? Certamente no. La radicalità dei mutamenti intervenuti nel secolo appena tramontato e di quelli ancora in atto ci impone una riscoperta sempre nuova del Vangelo e una ricomprensione vitale della tradizione cristiana. E non è solo l’accelerato mutamento dei tempi che le impone. È l’esigenza di una assunzione personale dell’annuncio cristiano, di un incontro di salvezza col Cristo risorto. Don Divo Barsotti è una guida straordinaria per quest’incontro personale con Cristo.
Ma trarre simile lezione da un’opera quale quella di Barsotti non è impresa di immediata fruizione, esige l’uso di collaudati strumenti interpretativi che, per di più, debbono essere adoperati con finezza e grande sensibilità, nella consapevolezza che bisogna attingere livelli diversi del “discorso” dell’autore, perché i suoi scritti parlano il linguaggio dell’esperienza personale ma senza rinunziare alla “pretesa” di parlare di Dio, anzi di parlarne con più verità del teologo in senso tecnico o professionale; e, contemporaneamente, sono pieni di echi letterari e di riferimenti culturali, costituiscono il documento di una lettura appassionata del proprio tempo. Nella già citata premessa al volume Parola e silenzio Barsotti dichiara: «[ … ] debbo ricordare a chi legge [ … ] di non confondere il linguaggio dell’esperienza col linguaggio tecnico della teologia. È chiaro che questo vuole esprimere la natura delle cose, definisce il loro statuto ontologico, mentre quello rende testimonianza di una esperienza».16 E – come continuando e approfondendo il discorso – scrive nell’altro libro La Presenza donata:
Né il teologo né l’esegeta appartengono al cristianesimo, ma il santo […]. Quando la teologia non è preghiera diventa fatalmente una gnosi, un pensiero mitico. Il vero teologo è colui che rende testimonianza. Ma testimonianza di che, testimonianza di chi? L’opera scritta è documento e testimonianza di un’epoca? Dio, se Egli è il Dio vivente, vive nella storia, ma anche la trascende. È in questo senso che la Scrittura è Parola viva anche per l’uomo di oggi. Ed è in questo senso che l’opera scritta, se non è semplicemente testimonianza di un’opera ma testimonianza dell’uomo, è anche testimonianza di Dio che vive in lui e fa dell’opera scritta una parola sempre viva per tutte le età 17.
Applicando queste affermazioni alle stesse opere del Barsotti, vi si deve ricercare sì la testimonianza di un’epoca, di un contesto culturale – quello della Firenze degli anni dell’immediato secondo dopoguerra e dell’Italia del secondo Novecento e, più ampiamente, del cattolicesimo tra concilio e postconcilio – ma anche e primariamente la testimonianza di un incontro personale con Dio. La lezione di verità da trarre dall’insegnamento di Barsotti, può essere colta se con finezza si cerca di attingere i diversi livelli degli influssi e delle dipendenze culturali del tempo e dell’autenticità e della forza di un’esperienza di Dio. Lo sforzo degli autori del volume è stato di intendere, secondo la competenza specifica di ciascuno, la complessità ma anche l’essenzialità del messaggio di Barsotti.
E resta che – come ho accennato all’inizio – il loro scopo è semplicemente di partecipare a quell’attenzione di studio che l’opera di Barsotti merita e che solo di recente ha cominciato a manifestarsi. Certamente c’è stata un’accoglienza di quest’opera lungo tutta la seconda metà del Novecento. C’è stato un favore dei lettori. E c’è stata un’influenza della riflessione di Barsotti in forme spesso quasi sotterranee ma non per questo inefficaci. Ma è anche vero che, come lucidamente avvertiva lo stesso Barsotti, non c’è stata un’incidenza della sua opera nella contemporanea teologia italiana. C’è stata come una reciproca estraneità. Non è difficile scorgere i motivi di questa estraneità. C’erano dei limiti della teologia accademica che le impedivano di sintonizzarsi col discorso di Barsotti, di accettarne le provocazioni. C’era innanzi tutto una scarsa attenzione al vissuto spirituale, all’esperienza dei mistici. Barsotti non dice fondamentalmente che la sua esperienza di Dio e si fa in qualche modo teologo e cerca il rapporto con la teologia principalmente per comunicare la sua esperienza. È soprattutto Antonino Raspanti a sottolineare in questo volume che Barsotti trova negli scritti di alcuni teologi contemporanei non italiani la griglia linguistica per leggere la propria esperienza e comunicarla, per testimoniare la sua vocazione alla santità. 18 L’incontro di Barsotti – nel doppio senso del dare e del ricevere – con la teologia italiana è invece sostanzialmente mancato. E inoltre la teologia italiana era poco aperta alla cultura nell’ampiezza e varietà delle sue manifestazioni, comprese l’arte, la letteratura, la musica. Anche questo ha contribuito a far mancare l’incontro con Barsotti che, invece, come mostra particolarmente il contributo di Massimo Naro in questo volume, intende il fare teologia come l’elaborazione di una “visione del mondo” cristiana, un’interpretazione e una rilettura alla luce del Vangelo di ogni civiltà, ogni letteratura, ogni filosofia, ogni tradizione religiosa. Non è un caso che ad accorgersi di Barsotti sia stato, tra i teologi, Balthasar. E forse c’è un altro motivo che spiega la reciproca distanza tra Barsotti e la teologia italiana: il suo avvicinarsi, fin dalla fine degli anni Quaranta, come mostrano in questo volume i contributi di Michelina Tenace e Basilio Petrà, alla tradizione teologica monastica ed esperienziale dell’Oriente cristiano e, quindi, di riflesso, il suo distanziarsi dalle forme più intellettuali e più astratte della tradizione teologica occidentale. Ma bisogna riconoscere che al mancato incontro di Barsotti con la teologia ha contribuito anche il genere letterario di molta sua produzione, particolarmente dagli anni Settanta in poi, che sembra avere incoraggiato un’accoglienza prevalentemente in circuiti di pubblico molto distanti da intenti e preoccupazioni propriamente teologiche. Forse questo volume – in cui prevalgono i contributi dei teologi – può aprire la via ad un’attenzione della teologia italiana all’opera di Barsotti.
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1 Mi riferisco soprattutto agli studi raccolti in AA. Vv., Cerco Dio solo. Omaggio a Divo Barsotti, a cura di S. TOGNETTI, G. GUARNIERI, L. Russo, Comunità dei Figli di Dio, Settignano (Firenze) 1994; ma è da ricordare anche E. MORANDI, Morte dell’uomo e presenza di Dio: la teologia come « rapporto» in Divo Barsotti, in L’esperienza di Dio. Filosofi e teologi a confronto, a cura di E. MORANDI E R PANATIONI, Il Poligrafo, Padova 1996, pp. 131 – 151. Gli studi precedentemente pubblicati sull’opera di Barsotti sono frutto di lavoro di ricerca per il conseguimento di titoli accademici. Si vedano: C. CARVELLO, L’Eucaristia negli scritti di Divo Barsotti. Saggio di teologia e spiritualità liturgica, Ed. del Seminario, Caltanissetta 1986 e E. GRASSO, Fondamenti di una spiritualità missionaria secondo le opere di don Divo Barsotti, Università Gregoriana Editrice, Roma 1986.
2 G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia, II, Jaca Book, Milano 1978, p. 657.
3 H. U. VON BALTHASAR, Introduzione a «La fuga immobile», in AA. Vv., Cerco Dio solo, cit., pp. 7 – 8.
4 C. Bo, La parola e il silenzio di Barsotti, in Id., Don Mazzolari e altri preti, La Locusta, Vicenza 19802, pp. 109 – 116 (la frase riportata è a p. 112).
5 Per una più ampia e puntuale contestualizzazione del testo montaliana cf. C. Naro, Montale e la banda di Malvolio, in Id., Spiritualità dell’azione e cattolicesimo sociale, Solidarietà, Caltanissetta 1989, pp. 145 – 168.
6 H. U. VON BALTHASAR, Introduzione a «La fuga immobile», cit., p. 10.
7 D. BARSOTTI, Dopo il Concilio, Ed. Messaggero, Padova 1970, pp. 7 – 8.
8 ID., Vivere la fede oggi, a cura di A. UGENTI, Ed. Borla, Roma 1992, pp. 106 – 107.
9 C. Bo, op. cit., p. 112.
10 Ib., p. 113.
11 Si vedano almeno le raccolte di alcuni dei saggi barsottiani sui santi italiani dell’Otto – Novecento: Magistero di santi, AVE, Roma 1971; Tre laici e un cardinale, A VE, Roma 1973; Testimoni di Dio, La Locusta, Vicenza 1981; Elogio della santità cristiana, Santi Quaranta, Treviso 1990. 12 G. MOROLI, Fermenti di spiritualità nell’Italia settentrionale postunitaria. Note di lettura, in «La Scuola Cattolica» 106 (1978) pp. 446 – 460 (vedi spec. p. 453, n. 26).
13 D. BARSOTTI, Parola e silenzio, Vallecchi, Firenze 1968, p. 5.
14 Ib., pp. 217 – 218.
15 H. U. VON BALTHASAR, op. cit., p. 16.
16 Do BARSOTTI, Parola e silenzio, cit., p. 50
17 ID., La Presenza donata (diario 1979 – 1980), Santi Quaranta, Treviso 1992, p. 1200.
18 È lo stesso Barsotti ad affermare con forza: «La teologia non ha valore per sé, sicché tu debba essere ad ogni costo un teologo – la tua vocazione è la santità – la teologia potrebbe essere allora la tua testimonianza». (D. BARSOTTI, Parola e silenzio, cit., p. 44).