Omelie generiche
Pasqua
Domenica di Risurrezione
2021
Domenica di Pasqua – Meditazione di suor Margherita
2020
Casa S. Agostino di Canterbury, Santa Pasqua di Risurrezione 2020
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Carissimi, anche da lontano siamo uniti nel proclamare:
“Il Cristo è resuscitato dai morti, con la morte ha calpestato la morte e a quelli che erano nella tomba ha donato la vita!”
Lo facciamo anche ora, in un momento drammatico, dove la malattia e la morte sembrano di fatto prevalere. Per questo è proficuo tenere a mente le parole che Gesù aveva pronunciato prima della morte di Lazzaro: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» – Gv 11,4.
Proprio ora che le sicurezze umane si incrinano e si dimostrano inaffidabili, più pura può risplendere la nostra fede e la nostra speranza in Cristo Gesù risorto: Nella fede, noi ora vediamo Gesù “coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto” (Eb 2,9.). “Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che Colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a Lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio. Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.” – 2 Cor 4,7-18.
Per la maggior parte di noi è un tempo di privazione in cui persino la porta che conduce a Dio sembra sbarrata: l’accesso diretto ai sacramenti e alle chiese è quasi del tutto impossibile!
Tuttavia leggiamo che: “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”- Gv 20,19-20.
Per noi può essere l’inverso: possono essere chiuse le porte del luogo dove si trova il Signore… Non cambia! Nulla riesce a trattenerlo! “Egli, ora, è là dove ama”, come ci ripeteva spesso il Padre… Ed ha anche promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”[1]. È questa visita del Signore che vince la nostra paura.
Ecco un comento del Padre in proposito: Una delle cose più grandi dei Vangeli dopo la risurrezione di Gesù precisamente la parola con la quale termina il Vangelo di Matteo… Come termina? «Io sono con voi fino alla consumazione dei secoli». È a Presenza del Cristo! Il contenuto unico di tutta la vita del mondo dalla Risurrezione in poi, per coloro che credono, è la Presenza. – Omelia 13/04/1987 (Audio).
Come incontrarlo? Vediamo in vari passaggi della Scrittura che il Signore tende a manifestarsi quando si parla e si conversa di Lui e di ciò che lo riguarda: “e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro.”[2] Può essere che anche siamo incapaci di riconoscerlo[3] e magari abbiamo anche il volto triste[4], perché riteniamo di essere fin troppo bene informati su tutto ciò che è accaduto in questi giorni[5] tuttavia se ci rivolgiamo alle Scritture, anche il nostro cuore potrebbe cominciare ad arderci nel petto[6]… Probabilmente è proprio per questo che San Paolo ci esorta: “La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori”[7]. Comunque il risultato è che: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”.[8]
Ma dov’è questa presenza?
“Cristo è sempre presente nella Sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche… nel Sacrificio della Messa… nei sacramenti… E’ presente nella Sua Parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, Lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel Mio nome, là sono io, in mezzo a loro”.[9]
S. Giovanni Crisostomo: Non temo la povertà, non bramo ricchezze non temo la morte, né desidero vivere, se non per il vostro bene. È per questo motivo che ricordo le vicende attuali e vi prego di non perdere la fiducia. Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18,20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la Sua Parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la Sua Scrittura, leggo la Sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «lo sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).[10]
Ma allora è presente solo ‘fuori’ di noi?
Ascoltiamo di nuovo il Padre: Miei cari fratelli, questa sola è la Resurrezione. Le apparizioni vogliono dare certezza a coloro che hanno perduto la fede e convincerli di questo grande miracolo che è avvenuto, che Colui che era morto ora è vivo. È vivo e dona la vita; è vivo e rinnova l’umanità. Infatti l’umanità si rinnova soltanto con la Resurrezione. Nella Morte Cristo merita la redenzione dell’uomo, ma è soltanto nella Resurrezione che Egli dona il suo Spirito. Che cosa dice Gesù quando entra nel Cenacolo secondo il Vangelo di Giovanni? «Ricevete lo Spirito Santo» [Gv 20, 22]. Dopo la Resurrezione Egli dona il suo Spirito; e donando il suo Spirito Egli vive in noi. … Egli vive in noi: ecco la Resurrezione. … Noi non lo percepiamo ancora, perché non abbiamo gli organi adatti per percepire quello che il Cristo compie in noi; ma quello che Egli compie è più grande della creazione del mondo, come diceva l’orazione che abbiamo detto. Infatti la creazione del mondo è soltanto la condizione perché Dio si possa donare a noi. Vi piace il sole? Vi piace il mare? Vi piacciono i monti? Eppure sono nulla in paragone di quello che l’uomo può vivere, anche se viene dimenticato da tutti. Dio è il nostro possesso, e la nostra ricchezza! Dio è la nostra medesima vita! Noi dobbiamo avere questa percezione, altrimenti quale buona novella portiamo al mondo? … Dio ha portato la sua pace, e questa pace è l’unione con Lui, è il vivere la sua medesima vita; la sua pace e questa grazia immensa che Egli ci fa di vivere in noi e di far sì che noi viviamo in Lui. Questa è la Resurrezione. … Nel giorno di Pasqua [si canta] in gregoriano… «Resurrexi et adhuc tecum sum – Sono risorto e sono con te». Ecco quello che voi dovete cantare, anche se non sapete cantare. Egli è con noi: «Sono risorto e sono con te!». Che noi possiamo ascoltare la parola di Gesù che ci dice questo! Che noi possiamo sperimentare questa presenza del Cristo in noi! Non al di fuori di noi. Perché l’unione avvenga, bisogna che Egli non sia al di fuori di me, bisogna che Egli ponga la sua dimora nel nostro cuore. Lo dice san Paolo nella Lettera agli Efesini [3,17]: «Christum habitare per fidem in cordibus vestris – Per la fede il Cristo abita nei vostri cuori». Nei nostri cuori! Non lo cercare Gesù nel cielo, non lo cercare in nessuna parte! Quando lo cerchi lo hai perduto. Egli è in te; in te e soltanto in te! Quanto più affonderai nell’intimo e tanto più lo troverai … È questo che ci insegna tutta la mistica cristiana: affondare nel proprio centro, nell’intimo del cuore, là dove dimora ora il Signore, che si è dato a tutti noi per essere di tutti la vita, la gioia, la plenitudine della santità, l’immensità dell’amore. – Triduo Pasquale, Desenzano, 12-15/04/1990.
Se questo non bastasse abbiamo una conferma ancora più autorevole nelle parole del Signore stesso: “Se uno Mi ama, osserverà la Mia parola e il Padre Mio lo amerà e Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. – Gv 14,23.
Vivere questo, per noi è estremamente importante, se vogliamo essere fedeli alla nostra missione:
dare speranza agli uomini.
Dice ancora il Padre: Rendiamo testimonianza della Resurrezione, dunque, perché in questa testimonianza noi siamo coloro che daranno l’unica speranza agli uomini che vivono quaggiù nel buio e non sanno dove terminerà il loro cammino. Per chi non crede, questo cammino è davvero come dice il Leopardi… tutto finisce. Non è così per noi che annunciamo la Resurrezione, il mondo ha veramente una speranza. Noi dobbiamo dare questa speranza al mondo… perché non tema. Il nostro cammino ha per meta la luce, il nostro cammino ha come meta la vita; il nostro cammino ha come meta l’amore. Il Cristo risorto ci ha aperto tutte le strade, non possiamo temere più. – Triduo Pasquale, Desenzano, 19-21/04/1984
Qualche pensiero dal Testamento del Padre da leggere nella luce della Risurrezione: Le consolazioni quaggiù sono solo un aiuto perché viviamo nella fede l’adesione alla sua volontà. Per questo chiedo a voi la fede, una fede semplice, pura, ma grande. Dio non vi mancherà. Vi siete donati a Lui, ed Egli vi ha preso: siete suoi per sempre. È un fatto assai relativo che la parete del corpo ci impedisca di vivere insieme. L’unione con Lui non è nell’esperienza sensibile, ma nel Cristo che ci ha uniti a sé e ci ha voluti un solo Corpo con Lui. … A tutti … voglio rivolgere il mio ultimo saluto, il mio ringraziamento più fervido, più vivo, la mia assicurazione che non abbandonerò nessuno. … Io vi lascio apparentemente. Realmente, sono con voi più di prima. Ma prima della mia presenza, deve essere per voi sicurezza il Cristo che vi ha chiamati e vi ha uniti tra voi. … Quale immensa comunione di amore sarà la nostra nel Cielo! Ma questa non mi sottrarrà alla comunione con coloro che ora lascio quaggiù sulla terra.
APPENDICE
Qualche suggerimento pratico per questi tempi difficili: cosa possiamo fare?
Non lasciamoci invadere dalla paura: Dio ha tutto sotto controllo: anche quando a noi non sembra. Infatti: “noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio”.[11] Sta dunque a noi trarre profitto da TUTTO, amando Dio e ricordandoci che: L’amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa.[12]
Non cercare il “colpevole”: questo non fa altro che alimentare rabbia, frustrazione, risentimento.
Proprio per quanto detto sopra, senza voler giudicare nessuno, è bene stare alla larga da tutte quelle fonti di informazione (video, audio, cartacee) che ci procurano stati di ansia o di risentimento… e scegliere invece quelle che ci infondono fiducia, pace e buona volontà nel Signore.
In questo periodo ci sentiamo quanto mai vicini a coloro che da tanto tempo non possono accedere ai sacramenti a causa della guerra, della persecuzione, o perché vivono in luoghi poco accessibili, oppure in situazioni di peccato… Possiamo anche esaminarci se abbiamo mai avuto, almeno qualche volta, un pensiero di compassione verso di loro, quando vivevamo nella “normalità”: perché questo capita a loro e non a me?
Possiamo infine (ciascuno di noi nel suo cuore) riconoscere: Signore, io non sono degno di riceverti: tante volte ho sciupato le Tue grazie più grandi: i doni che Tu mi avevi dato… Non ne ho fatto buon uso… Ma anche ora, di’ soltanto una parola ed io sarò salvato! …Possibile?
La Chiesa ci insegna di sì, anche per quanto riguarda i sacramenti: “Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia Egli non è legato ai Suoi sacramenti”. Infatti: “quanti subiscono la morte a motivo della fede, senza aver ricevuto il Battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per Cristo e con lui. Questo Battesimo di sangue, come pure il desiderio del Battesimo, porta i frutti del Battesimo, anche senza essere sacramento.[13]
Lo stesso vale per la Confessione: La contrizione perfetta “rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale” [14].
Sarà dunque diverso per chi, pur desiderandolo di cuore, non ha la possibilità di ricevere l’Eucaristia?[15]
La preghiera sia la nostra missione: particolarmente adatto anche a noi è il seguente brano dal CCC: “Stando ‘da solo a solo con Dio’ i profeti attingono luce e forza per la loro missione. La loro preghiera non è una fuga dal mondo infedele, ma un ascolto della Parola di Dio, talora un dibattito o un lamento, sempre un’intercessione che attende e prepara l’intervento del Dio salvatore, Signore della storia.[16]
VIVERE DA MONACI: proprio in questo periodo la nostra formazione monastica ci viene in soccorso, garantendoci l’uso dei mezzi di salvezza più potenti (dopo i sacramenti): la Liturgia delle Ore[17] e la Parola di Dio. Possiamo dunque dedicare più tempo all’uso del Breviario e alla lettura, studio e meditazione della Sacra Scrittura – A questa raccomanderei caldamente di abbinare anche la lettura del Catechismo (o del Compendio), per coltivare anche il legame con la Tradizione ed il Magistero della Chiesa: “Nell’amorosa e umile obbedienza al Magistero accoglierà la divina Rivelazione e alimenterà la propria fede in una sempre più intima conoscenza della Sacra Scrittura e della Tradizione, e vivrà, nell’adesione al mistero della Chiesa, il mistero della propria adozione filiale partecipando sempre più intensamente alla vita liturgica e sacramentale.”
La Scrittura stessa ci conferma: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza.” – Rm 15,4. Inoltre leggiamo: “Noi dunque, pur non avendone bisogno, avendo a conforto le scritture sacre che sono nelle nostre mani, ci siamo indotti a questa missione per rinnovare la fratellanza e l’amicizia con voi…” – 1 Mac 12,9-10.
Il Padre ci ha sempre richiamati and un rapporto specialissimo con la Scrittura: Anche per San Giovanni della Croce tutta la vita interiore, tutta la sua esperienza di Dio dipende semplicemente dal fatto che egli ‘ha mangiato un libro’. Di fatto impressiona la conoscenza profonda che egli ha di tutta la Sacra Scrittura: la sua vita interiore è nata ed è stata alimentata… da una continua comunione con la parola di Dio. Questo lo dico a voi, ma vale anche per me, perché noto che non si ama abbastanza la Sacra Scrittura, benché si legga tutti i giorni. Si legge così perché dobbiamo leggerla; ma diviene per noi nutrimento?
Io credo che non potremo fare a meno di mangiare tutti i giorni, perché altrimenti verremmo meno lungo la strada, come dice nostro Signore a proposito di coloro che lo seguono (Mt 15, 32). Ma il cibo dell’anima razionale, diceva Origene, è la parola divina. Come dovremmo sentire il bisogno di accostarci a questo libro divino, come dovremmo fare della Bibbia il nostro nutrimento quotidiano!
L’aspetto più originale del cristianesimo, che maggiormente lo distingue, è questa esperienza cristiana in dipendenza dalla Sacra Scrittura; può dipendere anche dai sacramenti, ma prima ancora deriva dalla Sacra Scrittura. … Ora, noi della Comunità dovremmo ugualmente distinguerci per l’amore alla Sacra Scrittura. Sono ormai più di vent’anni che ne facciamo la nostra lettura quotidiana: giorno per giorno rileggiamo questa parola divina. Forse ne leggiamo troppa o troppo in fretta e senza nemmeno quel senso di riverenza e di rispetto dovuto a Dio che ci parla? Ma dobbiamo renderci conto che senza questa parola si muore e, se non sentiamo il bisogno di ascoltarla, vuol dire che siamo malati: quando uno non ha fame, è segno che è malato ed il disgusto del cibo toglie anche la speranza nella guarigione. Se noi non abbiamo sete e fame di Dio, vuol dire che in fondo noi viviamo la nostra piccola vita, che ha escluso Dio dal nostro cuore. La parola di Dio dovrebbe essere, invece, il cibo quotidiano della nostra anima razionale, della nostra anima cristiana.[18]
Un’idea tra le tante per pregare con la Sacra Scrittura: le coroncine bibliche…
Per chi, come il sottoscritto, viene da un retroterra di preghiera devozionale, che comprende rosari e coroncine, può essere utile pregare con la Scrittura, riducendola a… coroncine!
Es.: sui grani grossi della corona si proclama:
Cristo Gesù… pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre. – Fil 2,5-11.
Sui grani piccoli: Per le Tue piaghe, Gesù, noi siamo stati guariti. – Cf Is 53,5; 1 Pt 2,24.
Al termine: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello.
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore. – Rm 8,35-39.
Lo stesso si può fare con qualunque passo adatto della Scrittura (es.: molti salmi e cantici).
Personalmente non ho dubbi sull’efficacia di una preghiera come questa, in quanto è basata sull’onnipotente Parola di Dio proclamata con fede!
[1] Mt 28,20.
[2] Lc 24,14-15.
[3] Lc 24,16.
[4] Lc 24,17.
[5] Cf. Lc 24,18.
[6] Cf. Lc 24,32.
[7] Col 3,16.
[8] Lc 24,36.
[9] CCC, 1088
[10] Ufficio delle Letture del 13 Settembre
[11] Rm 8,28.
[12] B. Charles de Foucauld, che aggiunge: Se accade che si soccomba a una tentazione, è perché l’amore è troppo debole, non perché esso non c’è: bisogna piangere, come san Pietro, pentirsi, come san Pietro, umiliarsi, come lui, ma sempre come lui dire tre volte: «Io Ti amo, io Ti amo, tu sai che malgrado le mie debolezze e i miei peccati io Ti amo»
[13] Catechismo della Chiesa Cattoloica, 1257-1258.
[14] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1452-1453: “La contrizione è «il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire». Quando proviene dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta «perfetta» (contrizione di carità).”
[15] Non mi dilungo qui sulla possibilità (quando manca l’accesso ai sacramenti) della Comunione spirituale e di assistere alla messa in televisione, ecc.
[16] CCC, 2584.
[17] “La Liturgia delle Ore estende alle diverse ore del giorno le prerogative del mistero eucaristico, «centro e culmine di tutta la vita della comunità cristiana»: la lode e il rendimento di grazie, la memoria dei misteri della salvezza, le suppliche e la pregustazione della gloria celeste”. – Introduzione generale alla Liturgia delle Ore, 12.
[18] Circolare: La Parola di Dio Cibo Quotidiano, Avvento 1972, USFPV II.
Sabato santo
2021
Sabato Santo – Maditazione di p. Martino
2020
Meditazione per il Sabato Santo p. Damiano
Venerdì santo
2021
Meditazione del Venerdì Santo – p. Silvano
2020
Meditazione di p. Serafino Tognetti
Giovedì santo
2021
Giovedì Santo Meditazione di p. Paolo – Triduo Pasquale 2021
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Mi pare opportuno domandarci perché il Padre ci propone il Giovedì santo come una nostra festa. Certamente i motivi sono tanti, anche perché il mistero del Giovedì santo è non solo profondo, ma anche sfaccettato, ricco di molti temi.
Dopo aver letto o ascoltato diverse meditazioni del Padre alla Comunità riunita appunto in questo giorno, potremmo dire che, anzitutto, siamo invitati all’intimità con Gesù. Ciò che più di ogni altra cosa sembra colpire il Padre la sera del Giovedì santo è il contesto raccolto dell’Ultima Cena. La liturgia ci ha fatto già meditare il tradimento nei giorni precedenti il Triduo: ciò non elimina l’ombra sinistra del peccato, ma l’oscurità della notte, pur regnando all’esterno, non spegne la luce che rischiara e riscalda il Cenacolo. Questa luce è Gesù, luce che illumina gli Apostoli, luce in cui siamo chiamati a rimanere.
Nel Manuale si consiglia ai Gruppi di partecipare insieme in parrocchia alla Messa in Coena Domini, proprio per dare consistenza e visibilità all’intimità con il Signore a cui la consacrazione chiama ciascuno di noi e in cui dobbiamo vivere anche la nostra fraternità. Per quanto possibile, poi, il Padre ha cercato di celebrare il Triduo in Comunità, a Baida o a Desenzano, dove ha potuto. Sappiamo che il Triduo pasquale non si può celebrare privatamente: si tratta non solo dell’evento liturgico più solenne dell’anno, ma anche del vero luogo, della fonte stessa da cui tutti siamo nati in Cristo e siamo una sola cosa in Cristo, una sola Chiesa: di qui la necessità e la norma di rendere manifesta e pubblica la nostra unità come cristiani. Di qui, però, anche l’esigenza, per il Padre, di farci cogliere, soprattutto il Giovedì santo, che questa unità in Cristo è il nostro carisma, la nostra caratteristica, la nostra testimonianza. Sappiamo che la Comunità dei figli di Dio non si vuole in alcun modo distinguere dalla Chiesa e proprio l’invito a stringerci attorno a Gesù nel Cenacolo, questa sera, ha come scopo quello di identificarci con la Chiesa, essere la Chiesa, nella concretezza della nostra appartenenza alla famiglia della Comunità.
Questo, dunque, un primo motivo che ci spiega perché il Giovedì santo è una nostra festa. La liturgia stessa ci stimola a vivere questa intimità. Il Cenacolo è il luogo in cui ci raduniamo anche durante buona parte del Tempo pasquale, ascoltando il racconto delle diverse apparizioni lì avvenute e i lunghi discorsi di Gesù durante l’Ultima Cena, secondo il Vangelo di Giovanni. Per il Padre, il fatto che il Signore, apparendo nel Cenacolo, ai discepoli di Emmaus, sulle rive del lago, si metta a mangiare insieme ai suoi, sta come a indicare che la Cena del Giovedì santo non si è interrotta. L’Ultima Cena è divenuta l’Unica Cena.
Questo intimo stare di Gesù con i discepoli è così pieno di amore e di un amore così sereno e luminoso, che il fatto stesso che il Tempo pasquale ci proponga di rimanere ancora tanto a lungo nel Cenacolo è come se cancellasse persino il dramma della croce, persino la tragedia del peccato, come non fossero mai stati. Tornare a sedere a mensa con Lui, tornare ad ascoltarlo, è come riprendere la cena, interrotta… da che cosa? Neppure si ricorda. Certo, le piaghe testimoniano quanto è avvenuto, ma la gioia non le fa vedere più neanche agli Apostoli. E neppure noi le vediamo più. Delle vestigia del peccato, dell’orrore del Calvario non resta che l’Eucaristia, il nostro stare a mensa con Gesù, il mistero stesso dell’intimità del Giovedì santo, la Santa Messa. Una tale intimità che ora il Signore si fa me e fa di me Se stesso.
Nella Santa Messa, nella Comunione, noi oggi possiamo vivere quanto vissero gli Apostoli in queste ore. Il Giovedì santo è il giorno della Messa, è l’attivazione del significato sacramentale di tutta la realtà o, meglio, l’elevazione di tutta la creazione alla condizione di segno e veicolo di grazia. Cristo si comunica, facendo di questa creazione e, per mezzo di essa, dell’uomo una sola cosa con Lui nell’Eucaristia. Il clima di intima e semplice vicinanza dell’Ultima Cena persiste nell’umile e quotidiano segno dell’Ostia consacrata, che vela e rivela la presenza di un Mistero che tutto abbraccia: tutto Dio, tutto l’uomo, tutta la creazione visibile e invisibile.
La spiritualità del Padre, la nostra spiritualità, ruota attorno all’evento del Giovedì santo. Anche per questo è la nostra festa. Bisogna almeno accennare ai molteplici e profondi temi del primo giorno del Triduo, che sono anche aspetti essenziali della Comunità dei figli di Dio.
L’inaugurazione dell’economia sacramentale
La ricchezza del Giovedì santo è tale che la Chiesa sente il bisogno di esprimerla attraverso i ricchi riti di due sante Messe.
Poco conosciuta dai fedeli è la Messa crismale che, secondo la norma, si celebra la mattina del Giovedì santo, ma in molte diocesi in altre date per motivi pratici. Credo che sarebbe importante per noi della Comunità partecipare a questa celebrazione che vede riunito tutto il clero diocesano attorno al Vescovo.
Quali aspetti del Mistero si vogliono mettere in evidenza attraverso la Messa crismale? Anzitutto, il Giovedì santo inaugura la liturgia nel senso più pieno e proprio del termine. Cristo, Nostro Signore, agisce da vero Pontefice qual è. Egli, vero Dio e vero uomo, eleva dalla potenza all’atto la sua condizione di nesso tra Dio e l’uomo, ma, oggi soprattutto, tra l’uomo e Dio. La sua umanità diviene luogo, strumento e attore del culto vero e salvifico che può giungere gradito a Dio: altare, vittima e sacerdote.
Cristo è l’altare, la pietra di fondamento. Senza di Lui non vi è “luogo” in cui poter offrire a Dio il sacrificio di lode e di salvezza. Egli è la Via, il ponte che unisce la terra al cielo. Egli è il vero Tempio in cui l’uomo si incontra con Dio, in cui non vi è più alcun velo che separi Dio dall’uomo.
Cristo è la vittima, l’unica vera vittima che può essere gradita dal Padre celeste. Ci ripeteva il Padre che solo Dio può soddisfare Dio. In Cristo, l’uomo possiede ora la Vittima che sola può permettergli di accedere al Cielo.
Cristo è il sacerdote vero ed eterno. In questo senso dicevo che finalmente Gesù passa dalla potenza all’atto: Egli che è tutto quello che abbiamo detto, Via e vero Agnello grazie all’umanità assunta, ora esprime, mette in atto ciò che è. È giunta l’ora di offrirsi al Padre. Solo Lui può farlo e adesso lo fa.
Nella Messa in Coena Domini, non si ricorda l’Istituzione dell’Eucaristia. Seguendo il Vangelo di Giovanni, la liturgia propone la lavanda dei piedi, mettendo in luce altri temi propri di questo intensissimo giorno. Neppure nella Messa crismale si ricorda direttamente l’Istituzione, tuttavia, attraverso il segno degli Oli santi, la celebrazione della mattina del Giovedì santo è finalizzata a sottolineare l’inaugurazione dell’economia sacramentale. L’accento è posto sul compimento delle promesse, per mezzo del Vangelo della visita di Gesù alla sinagoga di Nazaret, secondo Luca. Il compimento avviene nel farsi presente Dio in questa realtà, nell’assumere Dio questa realtà, nell’unirsi Dio all’uomo per mezzo di questa realtà.
Nel prendere pane e vino (i segni a cui indirettamente alludono entrambe le Messe di oggi), Cristo utilizza elementi del cosmo e il lavoro umano per metterci in comunione con il suo sacrificio.
La Bibbia fa intravedere fin dalla Genesi che la creazione e la storia umana sono segno e luogo di manifestazione di Dio all’uomo. Il Padre sviluppa in quasi tutti i suoi scritti questa verità, parlandoci della triplice rivelazione: cosmica, profetica e cristiana. Ebbene, proprio nell’Istituzione del Giovedì santo, nella consacrazione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, il Signore attiva la potenzialità della creazione e della vicenda umana: per Lui, con Lui e in Lui, esse divengono il segno e lo strumento per cui Dio si comunica all’uomo e l’uomo si fa uno con Dio. Che Dio si riveli attraverso questa creazione, che Dio operi nella storia, è possibile grazie al Giovedì santo. Solo il sommo e vero sacerdote che è Gesù Cristo può dare il loro vero senso alla creazione e alla storia umana. Solo Lui, finalmente, le fa servire al loro scopo, a ciò per cui esistono. Tutta l’economia cosmica, tutta l’economia profetica giungono a verità e compimento nell’atto di Cristo.
Egli, anzitutto, da Maria Santissima riceve l’umanità che assume. Nel suo farsi uomo, unisce a Sé, vero Dio, tutti gli elementi, tutta la creazione, e vive una vita umana. Ma Egli, la sera del Giovedì santo, ribalta la prospettiva, perché ora siano gli uomini a vivere nella loro umanità la divinità di Cristo. Il suo Corpo, il suo Sangue, tutto Se stesso viene consegnato ai discepoli in cibo, perché essi partecipino della condizione divina. E questo Gesù lo compie usando il pane, usando il vino, elementi del cosmo, ma lavorati dall’uomo. In questo senso, la creazione e la storia raggiungono il loro scopo, secondo il progetto di Dio. Stabilito fin dall’eternità, ora in Cristo si compie con l’unificazione del mondo creato e del mondo divino.
Fino all’incarnazione nel grembo di Maria Vergine, fino al momento dell’Ultima Cena, assistiamo alla discesa di Dio verso l’uomo. Ora inizia l’ascesa dell’uomo verso Dio. Gesù, il Dio divenuto uomo, prende ora questa creazione per farne il segno efficace della sua grazia, della sua redenzione, per farne lo strumento per cui l’uomo può divenire Dio.
La comunione con la croce di Gesù: i tre piani o momenti della Passione
Ma si potrebbe giustamente obiettare che il vero fondo a cui Gesù deve giungere è il Venerdì santo, la morte di croce.
Vorrei far notare, come ho fatto altre volte, che la Passione di Nostro Signore, pur essendo una, si presenta sotto tre aspetti o in tre momenti, che si possono definire: liturgico, esistenziale e storico. Sono l’unica Passione che Gesù è come se vivesse tre volte: il Giovedì santo, nell’aspetto liturgico ed esistenziale, cioè, nell’Ultima Cena e nel Getsemani; il Venerdì santo, nell’aspetto storico, quando soffre quella che sola siamo abituati a chiamare Passione.
Ma il Venerdì santo non avrebbe senso senza il Giovedì. Che voglio dire? Voglio dire che la morte di croce non potrebbe raggiungerci, se non vi fosse il Sacramento. E né l’uno né l’altro avrebbero un vero valore, se non vi fosse il doloroso “sì” pronunciato nell’Orto degli Ulivi dall’umana volontà di Nostro Signore. Nessun destino, nessun fato condusse Gesù al Calvario, ma il suo divino amore che divenne anche atto di amore umano, pieno, intenso, doloroso: il consenso del Getsemani.
Credo che ognuno di questi momenti contenga la totalità della Passione, ciascuno da una certa prospettiva.
L’Ultima Cena è l’ambito in cui la Passione viene comunicata ai discepoli, quindi anche a noi. La via liturgica è quella che ci permette di valicare il tempo e di essere tutti presenti al mistero del Calvario, perché si tratta della stessa Passione, dell’unico sacrificio compiuto da Gesù Cristo. Quello che il Signore fa nel consacrare il pane e il vino è non l’allusione simbolica alla morte di croce, non il dare un significato alla tragedia del Venerdì, bensì lo stesso evento del Golgota, ma sotto il velo del Sacramento.
Il Calvario è ciò che era l’olocausto nell’Antico Testamento. L’Ultima Cena, invece, è il sacrificio di comunione. La morte di croce è la solitaria consegna che Gesù fa di Sé al Padre. L’Ultima Cena è la consegna che Egli fa di Sé a noi. Ma è un unico mistero di amore.
Il sacerdozio
Nella Messa crismale della mattina del Giovedì santo, la Chiesa sottolinea uno dei temi “secondari” del primo giorno del Triduo: il sacerdozio.
Diciamo che è un tema secondario, non perché non sia importante, ma perché è derivato. Il principio fontale del mistero è Cristo, vero Dio e vero uomo, che compie la sua missione di riassumere e riportare tutto al Padre. È da Lui e dal suo sacrificio che nasce il nuovo sacerdozio, superamento totale di quello levitico. La lettera agli Ebrei, che in questi giorni ci accompagna nell’Ufficio delle letture, ci fa cogliere chiaramente la novità.
Dal Signore, che inaugura la nuova economia sacramentale, discendono due sacerdozi: quello battesimale e quello ministeriale. La Messa crismale vuole celebrarli entrambi. Cristo, fondamento di ogni reale rapporto con Dio, ci unisce a Sé e ci abilita ad essere offerta viva di noi stessi. L’unione oggettiva è stabilita dai Sacramenti, segni efficaci di grazia di per sé. Grazie ad essi, la Chiesa ci santifica, ci fa una cosa con Cristo.
È su questo piano che opera il sacerdozio ministeriale, nato quando Gesù, nell’Ultima Cena, disse ai suoi Apostoli: «Fate questo in memoria di me». Qui l’azione della grazia è divinamente efficace, al di là dei meriti e della dignità dei ministri. I santi Oli che il Vescovo consacra durante la Messa crismale vogliono indicare proprio l’oggettività dell’opera dello Spirito Santo sui membri della Chiesa, attraverso i Sacramenti. Ne deriva che anche l’azione liturgica dei ministri della Chiesa ha valore oggettivo: essi agiscono nella persona di Cristo e in nome della Chiesa, quando santificano i fedeli per mezzo dei Sacramenti.
E proprio per questo è stato istituito. Nella Messa crismale, infatti, il clero rinnova le sue promesse di fedeltà e di unione con il Vescovo e con la Chiesa, per indicare che solo da Cristo e dalla sua Chiesa viene il potere di generare e alimentare figli di Dio.
E i Sacramenti sono per i fedeli tutti.
Ciò che ci fa essere figli di Dio è il Battesimo. Ciò che ci abilita a vivere come figli di Dio è la Confermazione. Ciò che ci nutre come figli è l’Eucaristia. Tutto ciò è ordinariamente amministrato dal sacerdozio ministeriale, ma è principio del sacerdozio laicale, altrimenti detto comune o battesimale. Da un altro punto di vista, però, dobbiamo dire che è dal Battesimo, dalla Cresima e dall’Eucaristia, cioè dal contesto del sacerdozio laicale che scaturisce la possibilità di divenire ministri attraverso il Sacramento dell’Ordine. Se non si è battezzati, non si può essere preti, ma senza i preti non ci sono i Sacramenti dell’iniziazione: Battesimo, Cresima ed Eucaristia.
Il Giovedì santo tutto nasce contemporaneamente dallo stesso Gesù e dal suo Sacrificio. Tutto Egli fa sacro (sacrum facere, sacrificio). Anche se i singoli Sacramenti possono essere fondati su diverse pagine del Vangelo e degli scritti apostolici, la loro fonte scaturisce il Giovedì santo sacramentalemente e il Venerdì storicamente: dal costato aperto dalla lancia.
Con ciò, torno a riferirmi ai tre momenti della Passione e colgo l’occasione per sottolineare il fatto che è nel sacerdozio battesimale che siamo chiamati a vivere il secondo livello della Passione di Nostro Signore: il Getsemani. Infatti, Gesù vive nell’Orto degli Ulivi il suo sacrificio sul piano esistenziale e abbiamo già visto che era necessaria la piena adesione della sua volontà umana, perché si desse un reale fondamento alla grazia che ci è stata data di poter offrire noi stessi a Dio in Cristo. Proprio questo, infatti, è il significato del sacerdozio battesimale: ciascuno di noi è reso degno ed è abilitato ad offrirsi in sacrificio al Padre, come figlio nel Figlio. È per l’esercizio di questo sacerdozio, che tutti noi battezzati abbiamo, che ripetiamo il “sì” che Gesù dice nel Getsemani. Senza questo consenso il nostro vivere nel mondo, il nostro soffrire, il nostro morire, non si coniuga con l’opera compiuta in noi dai Sacramenti. Se io non consento all’amore, in qualche modo, non sono raggiunto e trasformato dall’amore in amore. Anche noi dobbiamo vivere la nostra Pasqua su questi tre livelli: sul piano sacramentale, siamo oggettivamente figli; su quello esistenziale, aderiamo alla nostra condizione di figli; su quello storico, la nostra vicenda umana non è più solo umana, ma è partecipazione oggettiva e soggettiva (primo e secondo livello) alla Passione di Cristo. «Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).
Il fondamento sacramentale del sacerdozio ministeriale e laicale si celebra nella Messa crismale, come abbiamo detto. Anche questo tema è essenziale per la Comunità, dato che si fonda sul Battesimo e riunisce in sé ogni vocazione cristiana: se siamo figli di Dio, è per quanto è avvenuto il Giovedì santo.
Ma passiamo a un nuovo tema.
L’Atto e la Presenza
L’Atto del Cristo è, per il Padre, la morte di croce. Abbiamo visto che la morte di croce è una sola realtà, un solo Atto, dunque, con l’Istituzione dell’Eucaristia. Si tratta del medesimo Sacrificio. E abbiamo anche visto che la morte di croce, di per sé incomunicabile, che cioè Gesù vive da solo, viene invece comunicata attraverso la via liturgica, inaugurata nell’Ultima Cena. Il Mistero eucaristico è, secondo la teologia, la presenza del Cristo in stato di vittima. L’Atto rimane fissato ed è la consegna di Sé al Padre (sulla croce) e ai fratelli (nel Pane e nel Vino consacrati).
L’Atto e la Presenza, come ha notato e provato don Ruggero Nuvoli, sono i temi portanti della teologia del Padre e della nostra spiritualità. Il Giovedì santo è il giorno della loro attuazione. Una sola realtà con l’evento del Calvario, il Mistero eucaristico riempie la storia e la trascende, riempie di Dio la creazione e la fa traboccare nel mondo di Dio. Tutto diviene un solo Cristo.
In Gesù, nel suo Atto di morte e di donazione di Sé, si chiude tutta l’opera economica della Trinità, specchio della sua vita immanente: infatti, come in Dio, il Padre genera eternamente il Figlio in un atto di amore che è lo Spirito Santo, e il Figlio tutto si rivolge al Padre nel medesimo atto di amore che è lo stesso e unico Spirito Santo, così il Padre crea la creazione a immagine del Figlio, in vista di Cristo stesso: per l’opera dello Spirito Santo, fa che nel Figlio tutta la creazione sia assunta e si riassuma; e ancora per l’opera dello stesso Spirito Santo, la creazione, resa una con il Figlio, nel Figlio torna al Padre. È l’Atto del Cristo che, attraversando tutta la creazione in estensione e in profondità, diviene il punto di incontro di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio, diviene tutta la realtà, cioè l’unione, il riassunto del mondo divino e del mondo umano.
Per l’Atto compiuto e comunicato, Cristo è la Presenza che tutto investe e a tutto dà senso. La Presenza reale del Cristo trova nel Mistero eucaristico la sua essenziale espressione, segno efficace e fondamento della divinizzazione di questa realtà. In Cristo, secondo quanto insegna il dogma dell’Incarnazione, Dio e l’uomo, Dio e la creazione, divengono uno, senza che si confondano o si annullino vicendevolmente, senza che mutino o subiscano menomazioni di sorta, senza che sia più possibile separarli. A causa di Cristo e del suo Atto, dove è Dio, è anche l’uomo, dove è l’uomo, è anche Dio, né si spiega Dio senza l’uomo, né l’uomo senza Dio.
La spiritualità della Comunità si potrebbe ricondurre tutta a questo: vivere la Presenza; essere la Presenza. Non un cammino da percorrere, non una morale da esercitare, non obiettivi da conquistare. Cristo ha compiuto ogni cosa, Cristo è in ogni cosa, in ogni realtà, in ogni momento. Si tratta di vederlo con gli occhi della fede. Questa la vocazione a cui siamo chiamati. Essere la Presenza è poi la missione che abbiamo. Non abbiamo altro da fare che testimoniare Cristo in noi, che essere la Presenza del Cristo nel mondo.
Rimanere in Gesù: il superamento del peccato nell’essere lavati
Gesù è il superamento di ogni separazione da Dio.
L’intimità con il Signore non si deve alla nostra bontà, al nostro merito, al nostro sforzo. È la realtà di Gesù stesso, la Presenza medesima, come si è detto. Il tema giovanneo del “rimanere” è la semplice conseguenza, l’esigenza, che scaturisce dal fatto che Gesù è qui, ora, in mezzo a noi. Da parte sua, nessuna distanza, nessuna riserva. Rimanere vuol dire rinunciare ad ogni nostra distanza, ad ogni nostra riserva.
Il Giovedì santo, tra l’altro, viene istituito anche il Sacramento della Penitenza, proprio nella lavanda dei piedi che caratterizza la Messa in Coena Domini: «Chi si è fatto il bagno (con queste parole Gesù si riferisce al Battesimo spirituale che gli Apostoli hanno vissuto nello stare con Gesù; di conseguenza anche il Battesimo sacramentale che noi abbiamo ricevuto), non ha bisogno che di lavarsi i piedi (e con questo allude alla riconciliazione che occorre ogni volta che non ci manteniamo all’altezza della dignità ricevuta in Cristo)» (Gv 13,10).
Il peccato, davanti alla redenzione della croce, non ha più alcun potere in se stesso di separarci da Cristo. Solo la nostra complicità con il peccato può impedirci di ricevere la misericordia di Dio. Il Signore non vuole che ci chiudiamo nel nostro peccato. Il suo amore è come impaziente persino davanti al nostro pentimento. La sua misericordia – che suppone ancora un peccato da sanare – vuole potersi esprimere al più presto in amore ed è quello che vediamo nel Vangelo.
Rimanere in Gesù vuol dire credere nel suo amore e vivere del suo amore. È questa l’acqua che lava i nostri corpi, i nostri piedi, che cioè ci converte e ci risana continuamente. Accettare che Dio ci ami così, è superare ogni barriera: è rimanere in Gesù. Il problema del peccato è per chi vuole rimanere in relazione con il peccato. Sarebbe importante approfondire, ma non ne abbiamo il tempo. Tuttavia possiamo citare l’esempio di Giuda, evidente caso per cui si preferisce il proprio modo di pensare, al punto che il modo di pensare del Signore rimane impenetrabile fino ad apparire insensato; quello di Pietro, invece, è il caso in cui l’amore per il Signore è certo, ma ancora fondato su se stessi, pertanto non si riesce a credere veramente che l’amore di Dio sia più grande del proprio peccato; infine, l’esempio di Giovanni, il discepolo che “rimane”, cioè colui che non bada più a se stesso, ma vive della parola, della presenza, dell’amore di Gesù. Il peccato non ha più peso, una volta conosciuto e creduto l’amore del Signore.
Nella lavanda dei piedi, si è ammessi all’amicizia con il Signore. Nella Comunione eucaristica, si è introdotti nella più profonda intimità con Dio. Il Giovedì santo è il mistero di ogni santa Messa: la realtà è questa comunione con Gesù, di cui dobbiamo imparare a vivere.
Rimanere in Gesù: lavarsi i piedi gli uni gli altri
E l’intimità con Gesù ci mette in compagnia di tutti gli altri che Gesù ha chiamato attorno a Sé. Il comandamento dell’amore, tema centrale della Messa in Coena Domini, è la diretta conseguenza dell’unione con Gesù nella Comunione. Anche per questo il Giovedì santo è “la nostra festa”, perché è la festa della comunità cristiana, che nasce e si stringe attorno a Gesù. Nel Mistero eucaristico, il Signore scompare nell’invisibile Presenza reale, ma si rende visibile, si rende tangibile, in me e nei miei fratelli. Nasce una reciprocità d’amore che supera l’antico comandamento di amare il prossimo. Un solo Gesù è Colui che ama; un solo Gesù è l’Amato. Inizia una circolarità di amore che, certo, ha il suo fondamento nella grazia, nell’unità posta da Cristo, ma che anche diviene il comandamento nuovo, cioè un impegno a vivere secondo l’amore, un impegno a far vivere l’amore che è in noi per la via sacramentale.
E sacramento della Presenza è il fratello, sono io. Gesù non lo conosciamo più nella carne sua terrena, ma tra di noi lo ritroviamo, in noi lo vediamo, nel servizio reciproco lo amiamo. La Comunità non l’abbiamo fatta noi: la raduna il Signore. Egli chiama come vuole. Di qui il nostro sforzo di superare ogni differenza, per giungere all’unità dell’amore.
Rimanere in Gesù: Cristo è l’unità
È dalla liturgia del Giovedì santo e precisamente della Messa in Coena Domini che il Padre ha tratto quello che chiamò “il nostro inno”: l’Ubi caritas. È solamente in Cristo che possiamo fondare la nostra unità, non sul piano morale, ma sul piano ontologico e teologale. Il Verbo di Dio incarnato, che supera l’abisso che separa la creatura da Dio, che nella sua Passione supera anche l’abisso scavato dal peccato, il Signore crocifisso, risorto e a noi comunicato per la via sacramentale, costituisce il nesso ontologico della nostra unità. Nella sua umanità assunta, noi, liberati dal peccato ci troviamo uno, uno in Cristo.
Uno con Dio Padre, perché siamo uno con il Figlio per opera dello Spirito Santo.
Uno con tutti gli uomini, perché Cristo si è fatto uno con tutti. Prima ancora, ma anche al di là dell’adesione personale da parte di ogni singolo uomo, la redenzione operata dal Verbo incarnato, crocifisso e risorto, è capace di assumere tutti gli uomini di tutti i tempi.
Di qui deriva l’impegno teologale per ogni credente, per ciascuno di noi, di accogliere nella carità tutti come fratelli, compresi i nemici. Non per nulla l’amore per i nemici diviene il distintivo del discepolo di Cristo. L’amore cristiano, infatti, non è causato da nulla, ma è preveniente e gratuito. L’amore cristiano è pronto ad amare prima ancora di conoscere l’amato e, quando l’altro è conosciuto, è come conosciuto da sempre, perché è già amato in Cristo.
L’unità di fatto, però, è con tutti gli uomini che sono uno con Cristo. In questa fase terrena della vita, non conoscendo il giudizio di Dio sui singoli uomini, non posso separarmi da nessuno, ma, perché anche io sia uno con Cristo, devo volermi e farmi uno con tutti. Nella pienezza della vita, quando sarò nella visione, risplenderà l’unità, solo tra tutti coloro che sono realmente membra del Cristo, ormai uno nella pienezza. Chi non sarà uno con Lui, sarà eternamente solo con se stesso: il vero inferno.
Per questo il Padre teneva tanto a sottolineare che la nostra unità in Cristo è già e soprattutto con i santi, con coloro cioè che sono stabiliti nella carità per sempre. Il loro amore per noi è sicuro, non vacilla, non può venire meno.
Con i santi, le anime purganti sono i nostri più veri compagni. E pure gli angeli del cielo, per l’adesione che vivono al piano di Dio di voler assumere l’uomo alla dignità divina, in Gesù Cristo Nostro Signore.
E tutta questa creazione, che Dio ha fatto per rendersi visibile e comunicarsi a noi per la nuova economia sacramentale inaugurata in questo santo giorno, pure partecipa del mistero dell’unità, attraverso di noi, per la resurrezione della nostra carne, per aver contribuito a fare ciascuno di noi quello che è. Che cosa saranno mai i cieli nuovi e la terra nuova, se questa creazione visibile si può paragonare a un seme? Che mai sarà la quercia nel suo pieno sviluppo, se la ghianda, che è questo creato, è già così meravigliosa? Potrà non essere parte del Cristo ciò che Dio stesso ha contemplato con occhi umani e ancora contempla con i miei occhi di credente?
Siamo uno in Cristo, perché siamo uno con Cristo. Il mistero dell’unità si compie il Giovedì santo. La Messa è il luogo in cui tutto converge; è l’Atto del Cristo, la morte di croce, che tutto riassume e redime; è la Presenza reale, senza più divisione di tempo e di spazio, la porta aperta sull’eternità, la vera e perfetta comunicazione di Dio all’uomo.
Conclusione
Verrebbe da dire che basta il Giovedì santo, basta l’intima comunione con il Signore. E il Venerdì santo? E il Sabato? E la resurrezione di Nostro Signore?
Se Cristo è uno, anche tutto il suo agire è uno. L’abbiamo già visto. È l’unico mistero sui diversi piani della realtà, secondo i vari obiettivi che Dio si propone nel compiere il suo unico Atto.
Ciò che il Padre ha sempre voluto vivere e ha insegnato, con la parola e con la sua dipartita da questo mondo, è proprio l’intimità di comunione con Gesù. Partendo da qui, dalla fede nell’amore del Signore, si può attraversare ogni Venerdì santo e ogni Sabato santo. Tutto dell’uomo è stato redento: nulla può più separarci dall’amore di Cristo. Perciò tutto può essere fonte di gioia, motivo di comunione con Gesù crocifisso e risorto, che, nel Pane eucaristico, si fa una sola cosa con me, vive una sola vita con me.
Le tenebre possono circondare il Cenacolo, ma nulla può spegnere la luce che è la Presenza di Cristo, di Cristo che ha vinto la notte, che ha sconfitto la morte.
2020
Meditazione di p. Agostino – Madonna del Sasso, 9 aprile 2020
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Mai come quest’anno sentiamo la responsabilità di vivere questo Triduo pasquale con impegno religioso profondo e adesione assoluta al Mistero. Rispetto all’abituale esperienza dello scorrere del tempo liturgico, che viviamo quasi come una realtà scontata, colgo in me oggi una percezione nuova, inedita, della gratuità del dono che riceviamo da Dio Padre che ci invita anche quest’anno a partecipare alla Pasqua del Figlio Suo. Con l’odierna liturgia vespertina – la Messa ‘in Coena Domini’ – entriamo nel cuore di questo Mistero, che è quell’evento di morte e risurrezione che ha avuto per unico protagonista Gesù, Verbo incarnato, ha segnato la storia spezzandola in un ‘prima’ e un ‘dopo’ e insieme portandola al suo compimento, e che pure ci viene proposto dalla liturgia della Chiesa come un evento che ci tocca personalmente, l’evento unico della nostra redenzione, che dobbiamo far nostro perché non venga resa vana la croce di Crist , come scrive Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 1,17. Cfr. pure Gal 2,21).
A prima vista oggi, Giovedì Santo, ancor più dei giorni passati la condizione in cui anche noi ci troviamo, pienamente solidali con l’intera umanità che patisce tragicamente per la fragilità della natura umana, può apparire qualcosa di intollerabile, una contingenza storica mortificante alla quale vorremmo ribellarci perché violenta la nostra libertà di celebrare, come sempre abbiamo fatto, la Pasqua del Signore. Eppure, proprio perché crediamo fermamente che le nostre vite sono tutte e sempre nelle mani di Dio, Signore assoluto della storia, intuiamo che anche l’umiliazione che inevitabilmente dobbiamo subire può essere fonte di una maggiore comprensione del dono di grazia che è la Pasqua. Nulla ci è dovuto per diritti o meriti acquisiti davanti a Dio. La Chiesa stessa non ‘possiede’ per titoli personali nulla di quanto il Cristo suo Sposo continuamente le dona; ella è chiamata ad accogliere, custodire e trasmettere i tesori inesauribili che sono propri di Colui che li ha guadagnati a prezzo del Suo sangue e che glieli partecipa per amore gratuito. «Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…», ci dirà proprio questa sera l’apostolo Paolo nell’introdurre la sua narrazione di quanto accadde quella sera nel Cenacolo (1Cor 11,23-26). E noi crediamo che nessuna potenza nemica potrà mai strappare alla comunità dei credenti questo tesoro di grazia: ella continuerà a difenderlo fino alla fine dei tempi anche a costo del sangue dei suoi figli martiri, come infinite volte è già accaduto in duemila anni di storia.
Ma la fonte segreta di questa forza di grazia è proprio la consapevolezza della gratuità del Dono ricevuto, con cui Dio stesso chiama i Suoi figli alla salvezza eterna convocandoli intorno alla duplice mensa della Parola e dell’Eucaristia. Certamente non è Lui che in questo tempo di prova ci vuole privare della gioia del sederci questa sera a mensa col Figlio e con i Dodici e di seguirLo, nei prossimi giorni, nel cammino verso la Pasqua attraverso l’esperienza misterica delle liturgie del Santo Triduo. Egli comunque sta permettendo questa umiliazione e ci chiede di accettarne il valore, per noi oggi ancora imponderabile, ai fini di una purificazione della nostra adesione a Lui. Per questo siamo certi che, se in questi giorni sarà Lui, Gesù benedetto, ad essere ugualmente al centro dell’attenzione esclusiva dei nostri cuori, non resteremo affatto privi di quella grazia che solitamente attingiamo alla fonte santissima della liturgia. Faremo Pasqua lo stesso col nostro Gesù, e nel giorno dopo il sabato (Gv 20,1) ci ritroveremo anche quest’anno col cuore stupefatto e traboccante della Sua grazia pasquale.
Mi sembra che quanto il Signore annunciò ai Suoi proprio durante la Santa Cena, spiegando loro ciò che stava avvenendo – anche se a Simon Pietro dovette dire: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7) – ci aiuti anche in un modo nuovo e tutto particolare a comprendere e a valorizzare la prova che in questo tempo ci sta affliggendo.
Questa sera dunque facciamo memoria della Cena del Signore, anche se per la gran parte di fedeli questa celebrazione non comporterà la partecipazione alla liturgia eucaristica se non attraverso i mezzi di comunicazione, che porteranno – purtroppo solo virtualmente – nelle loro case l’azione liturgica.
Dei tanti contenuti e messaggi che essa può rivelarci, mi fermo ovviamente soltanto su un aspetto.
L’evangelista Giovanni, a prima vista stranamente, per non dir proprio deludentemente, nel suo racconto di quanto avvenne quella sera nel Cenacolo non dice nulla dell’istituzione dell’Eucaristia. Eppure la Chiesa proprio oggi, giorno dedicato per eccellenza all’istituzione dell’Eucaristia, ci propone nella Messa una pagina tratta dal vangelo di Giovanni e non da uno degli altri evangelisti. E sono questi tre invece – Matteo (26,20-35), Marco (14,17-26) e Luca (22,14-38) – che ci narrano il gesto eucaristico del Signore, la fractio panis, e tra loro soprattutto Luca ci propone particolari interessanti che ci aiutano a cogliere dimensioni importanti di quell’evento. Paolo poi, l’ho già accennato, ci consegna anche lui la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia e gli esegeti anzi ci dicono che questo suo racconto, dal momento che precede la redazione dei Vangeli, è la prima versione in assoluto – e dunque la più preziosa – del racconto della Cena del Signore (1Cor 11,23-26). Giovanni invece, come tutti sappiamo, oltre a riportare, lui solo, il grande discorso di addio che il Signore rivolse ai Dodici nei capitoli 14-16 del suo vangelo e la grande preghiera sacerdotale al Padre nel capitolo 17, ricapitolativa di tutta la Sua missione messianica, ci narra pure qualcosa che né gli altri evangelisti né Paolo ci dicono: il gesto stupefacente di Gesù, che nel bel mezzo della cena – … mentre cenavano…, scrive l’evangelista: e dunque non prima di sedersi a mensa, ed è un particolare importante -, si alza, si toglie il mantello, ci cinge di un asciugatoio e si china davanti ad ogni discepolo per lavar loro i piedi (Gv 13,2-15). A Simon Pietro, che vorrebbe evitare al Maestro questo gesto di grande umiliazione e con insistenza Gli oppone il suo rifiuto – «No, Tu non mi laverai mai i piedi!» – Gesù dona una parola di così grande profondità di amore che lo mette con le spalle al muro, provocandolo nel suo desiderio intenso di stare sempre con Lui: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Ecco il fine della Pasqua di Gesù, il compimento della Sua missione tra gli uomini voluto dal Padre: renderci idonei ad ‘aver parte’ con Lui – échein méros sono le parole greche -, stabilirci in una comunione con Lui che dà un senso del tutto nuovo alla vita presente e insieme ci apre alla speranza nella vita eterna. Ma ci chiediamo: qual è il motivo di fondo di tutto questo? Perché per il Signore è così importante l’averci con Sé, tanto da affrontare la passione e la morte per strapparci al potere di un nemico, che non sopporta che la creatura umana abbia relazione con Dio? E’ sempre Giovanni che ci svela la causa fontale e finale dell’atto redentivo compiuto dal Figlio eterno nei nostri confronti, quando apre proprio il suo racconto della Cena, che è anche l’introduzione a tutto il racconto della passione di Gesù, affermando: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine – eis télos egàpesen –. Questo amore consumato ‘fino alla fine’ è ciò che riempie il cuore divino-umano del Cristo e da esso trabocca, invadendo la nostra vita. Ed Egli ci chiede di comprenderlo e di corrisponderlo, questo amore. Ricorderete certamente l’augurio mirabile che Paolo rivolge ai cristiani di Efeso: Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. E’ questo il motivo per cui l’apostoloPaolo, in perfetta sintonia di cuori col Cristo di Gv 13, prega intensamente Dio Padre, come leggiamo nella lettera agli Efesini al capitolo terzo (Ef 3,17-19). La comprensione dell’amore di Dio, di quell’amore che nel gesto della lavanda dei piedi ha una sua ‘icona’ tra le più sconvolgenti. E come non ricordare ancora le parole dell’Apostolo, che commovevano profondamente il nostro padre, gli spezzavano la voce in gola ogni volta che, ripetendole, le faceva assolutamente sue: Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio (Gal 2,19-21). Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me: quante volte abbiamo ascoltato queste parole sulle labbra di don Divo!
Fare Pasqua dunque anche per noi oggi deve voler dire lasciarci ‘lavare i piedi’ da Gesù Santissimo per sperimentare e comprendere la realtà abissale del Suo amore per noi. La lavanda dei piedi evoca la morte di croce e ce ne svela anticipatamente il contenuto salvifico come atto di amore assoluto. Dobbiamo confessare a noi stessi che la comprensione di questo mistero, che è il nocciolo della Pasqua, ci supera sempre. Anche noi sentiamo di dover fare il cammino di cui Gesù parla a Simon Pietro, da un ‘ora’ – «… tu ora non capisci…» – a un ‘dopo’ – «… capirai dopo…» –. Il mistero dell’amore redentivo è infinito e in-comprehensibile, in senso letterale: ‘che sfugge ad ogni possesso’, come il mistero stesso di Dio, perché Dio è amore, ci dice Giovanni nella sua prima lettera(1Gv 4,8.16). Solo l’azione dello Spirito Santo in noi, frutto pieno della Pasqua di Gesù, può renderci percorribile questo cammino e renderlo fruttuoso, trasferendoci da quell’ ‘ora’ a quel ‘dopo’. Pensiamo al mistero della Pentecoste (Cfr. At 2,1-4), ma anche alle effusioni dello Spirito Santo da parte di Gesù sin dalla croce nel momento della Sua morte (Cfr. Gv 19,30), a quella nel Cenacolo la sera stessa del giorno della risurrezione (Cfr. Gv 20,22).
La Pasqua vissuta nella liturgia è il ‘kairòs’, il tempo più opportuno, per realizzare una comprensione sempre più piena e profonda del Mistero della salvezza. Una comprensione non solo intellettuale, soprattutto esperienziale. O stolti Galati, chi vi ha incantati? – è l’accorato rimprovero di Paolo ai Galati – Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso! … Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne? (Gal 3,1-3). Senza l’esperienza pasquale – nel mistico procedere dei nostri cuori dalla Cena nel Cenacolo fino all’effusione dello Spirito il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione – non possiamo capire nulla e la verità del Vangelo resta per noi una semplice dottrina. Ma “fare Pasqua” è molto di più! E’ ‘avere parte con Lui’.
Il valore della mediazione liturgica sta proprio in questo. La liturgia non ripete, non duplica l’Atto del Cristo, che si è compiuto e consumato una volta per tutte. Non si tratta di una “sacra rappresentazione”, di una drammatizzazione teatrale: per ogni Messa si tratta proprio di quell’Atto divino-umano, di cui il Kyrios morto e risorto è stato ed è tuttora unico Protagonista – quell’Atto, proprio quello, non la ripetizione di esso – reso presente e a noi accessibile mediante la mediazione ecclesiale. Una mediazione che, per la grazia dello Spirito che opera in noi-Chiesa, nella Liturgia ci fa ‘comprotagonisti’ col Cristo. Sant’Agostino parlava a tal proposito del ‘Christus totus’: Cristo è il capo e noi siamo Sue membra. Lo Spirito realizza in noi questo mistero, senza che noi ci sostituiamo al Kyrios, che è e resta il Protagonista unico dell’Atto che si compie nella Liturgia. Non si duplica l’Evento e non si duplica neppure il ruolo del Cristo, Sommo Sacerdote nel sacrifico eucaristico e anche, è bene ricordarlo, soggetto primo della preghiera salmica nella Liturgia delle ore; eppure noi-Chiesa siamo coinvolti. Dunque, ‘aver parte con Gesù’.
I teologi parlano di una partecipazione ‘passiva’ al dono che Gesù ci fa nella Sua Pasqua, e di una partecipazione ‘attiva’, che è l’aver parte anche alla sua missione. Questa sottolineatura ci porta a fermarci sulla seconda parte del racconto evangelico di questa sera. «Capite quello che ho fatto per voi? – chiede Gesù agli Apostoli, tornato a sedere a mensa con loro dopo aver lavato loro i piedi – Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica». Alla scuola dei Padri della Chiesa anche noi oggi cogliamo due dimensioni del gesto compiuto dal Signore: quella del suo valore simbolico, per cui esso va accolto come ‘sacramentum’ dell’ormai prossima morte di Gesù, e quella del suo valore paradigmatico, esemplare, per cui esso è anche ‘exemplum’, modello di servizio di umiltà.
Benedetto XVI, nelle sue splendide riflessioni su questa pagina evangelica, ha sottolineato che il passaggio dalla prima alla seconda dimensione – da quella del simbolo a quella dell’esempio – non è da intendere come “un’appendice morale al mistero […]. La richiesta: «… anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri … Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi…» deriva – ha scritto papa Benedetto – dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è Suo. Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola col Suo.” E continua Ratzinger, grande teologo: “La vera novità del ‘comandamento nuovo’ – lo ricordate: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34) – La vera novità del ‘comandamento nuovo’ non può consistere nell’elevatezza della prestazione morale. L’essenziale proprio anche in queste parole non è l’appello alla prestazione somma – l’amore cioè consumato fino al sacrificio della propria vita per gli altri -, ma il nuovo fondamento dell’essere che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere noi in Lui. […] Ciò che conta – conclude Benedetto XVI – è l’inserimento del nostro io nel Suo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20).”
Sulla base di questa riflessione teologica – perfettamente sintonica con quanto il nostro padre ci ha sempre insegnato, quando ci metteva in guardia dal ridurre il cristianesimo a una semplice morale – cogliamo un secondo messaggio quanto mai attuale per noi, facendoci guidare da un altro grande esegeta, più che teologo, francese, il padre Xavier Leon-Dufour. Accostiamo per questo al gesto della lavanda dei piedi l’altro gesto compiuto da Gesù e narratoci dai sinottici, e da loro collocato proprio là dove Giovanni colloca la lavanda dei piedi: … mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò… poi prese il calice… (Mt 26,26; cfr. Mc 14,22-23, Lc 22,19-20). Con entrambi questi gesti, nei quali il Suo amore per gli uomini, per ciascuno di noi, si rivela fino all’estremo, il Signore – nota p. Leon-Dufour – “fonda la comunità dei discepoli sul dono di Sé”. Se questo Suo donarsi per sempre “rimane il principio costitutivo della Chiesa e determina la sua regola di vita”, i due gesti da Lui realizzati una volta per sempre in quella sera costituiscono in realtà un unico atto divino. Non per nulla Gesù stesso del gesto eucaristico dice: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), e dopo la lavanda dei piedi dice ai Suoi: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi… anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. » (Gv 13,14-15). Questo unico, identico comando di Gesù ai Suoi perché quanto Egli ha fatto fosse perpetuato nel tempo diventando un atto ecclesiale, ci svela una verità di capitale importanza. E’ stato notato infatti che con esso Gesù istituisce come un duplice ‘memoriale’ della Pasqua del Signore: il ‘memoriale cultuale’, che è la liturgia eucaristica, lo spezzare il pane durante la Messa, e il ‘memoriale esistenziale’, che è l’esercizio concreto della carità, frutto anch’esso della Pasqua di Gesù. Facciamo Pasqua quando celebriamo i misteri liturgici, ma facciamo Pasqua anche quando obbediamo al ‘comandamento nuovo’ esercitando la carità.
Oggi, Giovedì Santo, riscopriamo dunque che ogni atto di carità autentica, di vero amore, è tale perché ha un autentico contenuto pasquale. La sorgente della carità sta infatti nel cuore del Mistero pasquale: è quella Croce, segno massimo dell’amore divino, che è resa presente a noi nell’Eucaristia. Che cos’è infatti la Messa se non il mistero del rendersi presente qui e ora del sacrifico di Gesù? Ogni forma di amore cristiano non è che prolungamento ed espressione concreta dell’amore che Cristo rivela e partecipa ai Suoi in Gv 13,1-17, attraverso il Suo gesto di servizio, la lavanda dei piedi, espressione di inaudita e davvero tutta divina umiltà. Questa sera abbiamo quindi davanti ai nostri occhi una realtà meravigliosa: il fondamentale legame tra la morte di croce del Signore, il Mistero eucaristico – la Santa Cena – e l’esercizio concreto della carità.
L’Eucaristia, nel suo ruolo genetico nei confronti della carità, ce ne svela, oltre che il contenuto pasquale, il suo valore salvifico. Ma non possiamo certo essere noi a dare efficacia salvifica alla carità che esercitiamo; è Dio stesso, il Risorto, che lo fa attraverso l’azione del Suo Spirito nei nostri cuori. L’amore è essenzialmente Atto divino perché Dio è amore, ci ha già ricordato Giovanni (1Gv 4,8.16), e noi possiamo farlo nostro solo come dono gratuito di Dio. Imparare ad amare infatti è esperienza di pura grazia. L’amore di Dio – afferma san Paolo – è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato donato (Rom 5,5). Amiamo non solo “per” amore del Signore o “come” Lui ci ama- per la fragilità della nostra natura questo ci sarebbe impossibile -, ma noi amiamo “poiché” Lui ci ama, “in conseguenza del” Suo amore, “in continuità” del Suo amarci, grazie al dono che Egli ci fa del Suo Spirito , del Suo medesimo amore – ‘kathòs’ è la preposizione greca usata dall’evangelista per svelarci questa meravigliosa verità (Gv 13,15) -. Ecco allora il pieno realizzarsi del nostro ‘aver parte con Lui’ nella duplice dimensione passiva e attiva, già notata all’inizio di questa nostra riflessione. Si impara ad amare in forza dell’amore che si riceve. Questa legge è propria dell’uomo sia nella sfera naturale sia in quella soprannaturale. Si impara ad amare, come Gesù ci fa grazia di fare, soltanto se ci facciamo ‘lavare i piedi’ da Lui nell’accogliere umilmente il dono salvifico della Sua morte di croce, che nell’Eucaristia ha il suo sacramentum perenne. E’ davvero mirabile – lo ripeto – il legame tra Croce, Eucaristia ed esercizio di carità!
E’ proprio perché la carità ha nell’Eucaristia la sua fonte, che anch’essa – la carità intendo – partecipa di una certa sacramentalità: rende cioè viva e percepibile la presenza del Risorto tra di noi e ci porta salvezza. Ecco la dimensione liturgico-sacramentale dell’esercizio della carità fraterna, quella che la santa madre Teresa di Calcutta chiamava “amore in atto”.
Gesù nella morte di croce, da Lui esemplificata nel gesto della lavanda dei piedi e resa attuale per noi liturgicamente nella Messa, ha compiuto un gesto definitivo di accoglienza nei nostri confronti; ed è così che riceviamo da Lui, e da Lui solo, la salvezza. Ed Egli in cambio di questo dono, cosa ci chiede, cosa vuole da noi per Sé…? Una risposta di amore, certamente, ma che si dilati nelle dimensioni infinite del suo stesso amore per tutti. Questa risposta Egli l’attende da noi mediata dalla carità fraterna tra di noi. E questo è davvero stupefacente! «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,34-35). Il “come” dell’amore – come io ho amato voi – anche qui è espresso dalla stessa preposizione greca ‘kathòs’, che ricorre nelle parole di Gesù dopo la lavanda dei piedi, e che esprime la conseguenzialità, il dipendere, del nostro amarci tra di noi dal sentirci ancor prima amati da Lui. Anche quando ci amiamo come fratelli termine ultimo del nostro amore non siamo noi: è Lui, Dio, da noi incontrato nel Figlio fattosi uomo e nei fratelli, sacramenti vivi della Sua presenza.
La stessa verità aveva insegnato Gesù alle folle con le parole «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La nostra accoglienza dei Suoi “fratelli più piccoli” è risposta al Suo amore personale per ciascuno di noi. Gesù infatti con quelle parole identifica Sé stesso con i piccoli, i poveri, da Lui chiamati “i miei fratelli più piccoli”. In essi Lui è ‘presente’ e dunque per noi raggiungibile. E’ questa l’interpretazione teologica, propriamente cristologica, più che moralistica che don Divo dava al discorso di Gesù sul giudizio finale; e ben si accorda con quanto oggi questa nostra riflessione ci ha portato a ricomprendere.
Riportiamoci, per concludere, a questo nostro ‘oggi’, così pesantemente segnato dall’impossibilità di celebrare le liturgie del Triduo Pasquale in forma pubblica e comunitaria. Quanto abbiamo ora insieme meditato penso possa aiutarci a trovare conforto e a sentirci meno prigionieri di una situazione imposta dall’alto. Se la celebrazione del ‘memoriale cultuale’ ci appare quest’anno penosamente mortificata nella sua dimensione comunitaria – ma non dimentichiamo che tutti i riti del Triduo vengono ugualmente celebrati anche se non in forma pubblica -, tutti possiamo comunque celebrare in questi giorni santissimi il ‘memoriale esistenziale’ della Pasqua di Gesù nell’esercizio di una carità ancor più generosa del solito, fatta di azioni concrete e prima ancora di intensissima preghiera personale, e specificatamente orientata a colmare, per così dire, il vuoto liturgico. Questo imprevisto e mortificante ‘digiuno’ – mai ci saremmo aspettati di viverlo… – sia per tutti occasione per riaccendere nel cuore quella ‘fame e sete di Dio’ che tante volte cantiamo nelle nostre salmodie, forse senza renderci conto di cosa voglia dire veramente essere affamati e assetati di Lui e della Sua grazia, dono imprescindibile se vogliamo davvero vivere, e non solo celebrare con canti e riti più o meno solenni, la Pasqua di Gesù nella nostra vita. Che il Signore ci dia la grazia di vivere tutto questo e di fare Pasqua anche quest’anno con Lui.
p. Agostino