In questi giorni della Settimana Santa la Chiesa non vive una semplice memoria di un avvenimento lontano: non si tratta semplicemente di meditare sulla passione di Gesù per imparare anche noi ad essere pazienti, per imparare anche noi ad amare, se no diviene solo un motivo di morale. La mia morale cristiana non può essere altro che una partecipazione a questa vita di comunione con Lui.
(…) Tutto nella liturgia della Chiesa, tutto nella vita della Chiesa implica questo rapporto con la presenza di Gesù; ma se tutta la liturgia esige che noi ci rendiamo conto, che noi prendiamo conoscenza di questo rapporto vivo che noi dobbiamo avere col Cristo, Figlio di Dio che si è mostrato al mondo, che è morto per noi, che ci ha assunto nell’unità del suo Corpo, se tutta la vita della Chiesa è questo, mai come nella Settimana Santa noi siamo chiamati a vivere questo rapporto reale.
Avete sentito, dall’Inno alle antifone delle Lodi, alla lettura breve, che non si parlava più di virtù: nel tempo di Passione, già dalla Quinta domenica di quaresima, i testi della liturgia non sono più un richiamo ad impegnarci in una virtù o nell’altra; sono tutti un richiamo a vivere la memoria, il memoriale del Cristo. E voi sapete che il memoriale nel Cristianesimo non è un ricordo vuoto; il memoriale nella liturgia è la Presenza, perché non è un memoriale umano: è il ricordo in Dio. Dio non può avere un passato, Dio non può avere un futuro, Egli è la Presenza stessa! Il memoriale è la Presenza!
Miei cari fratelli, la Settimana Santa ci insegna anche che in tutti noi c’è il male, ma noi possiamo vincere il male se impareremo da Gesù come si ama. (…) Dobbiamo amare: ecco l’insegnamento che ci dona Gesù. E amare vuol dire mettersi sotto i piedi di tutti, perché amare vuol dire che l’amato diviene il fine dell’amante: chi ama mette al di sopra di sé l’amato perché vive per lui, perché si mette al di sotto di lui (…).
In quella notte stessa in cui veniva tradito, rinnegato, oltraggiato da tutti, abbandonato, in quell’ora medesima Gesù amava l’uomo sino alla fine, sino all’estremo: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13, 1); e non vuol dire solo fino alla morte, ma fino all’estremo del suo potere. Ecco, nei confronti del male, la risposta di Dio.
Dobbiamo amarci, e amarci davvero, sempre; l’amore che ci unisce è la prova migliore, l’unica – badatelo bene, l’unica – che Dio vive nel nostro cuore (…).
Amate! Questo è l’insegnamento fondamentale del Cristo, e ce l’ha dato proprio alla vigilia della sua passione. Egli va a morire e muore per noi, Egli va a morire e muore per donarci la vita, ma prima di morire che cosa dice? «Amatevi l’un l’altro, come io vi ho amato» (Gv 13, 24). L’esigenza dell’amore divino, nella prima lettera di Giovanni, è questa: «Come Gesù è morto per noi, così noi dobbiamo morire gli uni per gli altri» (1Gv 3, 16).
(…) Ecco il primo insegnamento che ci viene da questi giorni benedetti della Settimana Santa, che sono i giorni in cui noi contempliamo il trionfo dell’amore di Dio, di un Dio che prende sopra di Sé tutta la pena del mondo e a tutti gli oltraggi, a tutto l’odio dei Farisei, degli scribi, al rinnegamento di Pietro, al tradimento di Giuda, risponde col dono totale di Sé in un amore infinito.
«E noi dobbiamo dare la vita per i nostri fratelli», dice san Giovanni (1Gv 3, 16). La prova del nostro Cristianesimo è qui, solo qui. Nulla cosa vale se questo amore non c’è; e se questo amore c’è, anche se noi fossimo – come lo siamo – dei poveri peccatori, dice san Pietro, «la carità copre la moltitudine dei peccati» (1Pt 4, 8).
Amiamoci, dunque, e impariamo così ad essere veri discepoli di Gesù, Nostro Signore.
Visita a Siracusa, Ragusa, 1-3 aprile 1985