La preghiera liturgica, come consuma la vita dell’universo, come consuma la vita della Chiesa, corpo di Cristo, così deve consumare la vita di ogni uomo e non lo può finché l’uomo non si identifica a tutto l’universo, non si fa uno con tutta la Chiesa. Non solo deve far parte della creazione, ma nulla deve sentire lontano ed estraneo alla sua vita. Tutta la creazione deve essergli vicina, fraterna, vivendo del suo ampio respiro in questa comunione continua con Dio. Allora la preghiera liturgica diviene la sua stessa preghiera.
(…) Più ancora: vivendo fino in fondo la sua vita umana egli potrà vivere nella preghiera liturgica la vita stessa del Figlio di Dio fatto Uomo. Proprio in quanto vivrà pienamente la sua vita di uomo, egli potrà vivere e far sua la vita stessa del Cristo. Certo, non può far sua la preghiera di Gesù se non vive la sua vita, anzi la sua morte. Ma nella vita e nella morte il Cristo ha vissuto la vita e la morte dell’uomo. Di fatto, nella misura che l’uomo vive pienamente vive nel Cristo, la preghiera liturgica ha il suo compimento nel Sacrificio Eucaristico che fa presente il mistero della Morte di Gesù. Una partecipazione vera alla preghiera liturgica include così la vita dell’uomo e la sua medesima morte. Così l’uomo vivrà la preghiera dell’Ufficio, la sua partecipazione alla Messa, se vivrà pienamente, se realizzerà pienamente, in una sua comunione profonda con la creazione, in un suo inserimento vivo nel tessuto della storia, la sua vocazione umana. La vocazione soprannaturale dell’uomo non dispensa l’uomo dal vivere fino in fondo la sua vita, anzi, perché l’uomo è uno e una è la sua vita, egli, solo vivendo la sua vocazione umana, vivrà anche nel Cristo.
La vita religiosa nella vita presente non è mai rapporto immediato con Dio e la mediazione necessaria al rapporto è la creazione intera, è la storia degli uomini, è l’uomo nella vita più segreta e più sua. Il rapporto con Dio, al contrario di isolare l’uomo dal mondo o di sradicarlo da se medesimo, si realizza in una comunione con la creazione intera, con gli uomini, si realizza nella coscienza che l’uomo ha sempre più vigile e viva di sé. È nel rapporto con Dio che egli vive così la più alta pienezza di vita, cui nulla è negato, cui tutto al contrario è necessario nutrimento.
La rinuncia sarà un dovere austero per l’uomo che vuole vivere una vita religiosa e tanto più sarà esigente quanto più pura e intima dovrà essere la conoscenza che l’anima vuole avere di Dio. Ma non possiamo e non dobbiamo ingannarci. La rinunzia cristiana non darà mai luogo a una mistica cristiana acosmica e atemporale.
La rinunzia cristiana è il rifiuto a fermarsi al mezzo, a trasformare quello che è un mezzo; e perciò deve essere superata, col fine, quella che è la via con la meta stessa del cammino. La rinunzia cristiana è una scelta che sempre si ripropone, via via che l’anima ascende di valore in valore più alto, e impegna e sforza l’anima a un cammino senza fine. Ma proprio per questo la rinunzia esige la conoscenza e l’uso del mezzo; non si rinunzia che in quanto si supera. Non si rinunzia in quanto ci si mantiene al di qua, nell’ignoranza, ma in quanto piuttosto si oltrepassano tutte le creature per giungere a Dio. Ma, in fondo, neppure si oltrepassa ogni creatura se veramente si giunge a Dio e non si precipita al contrario nel vuoto, nel nulla. La creazione per l’anima pura acquista una trasparenza divina e rivela Dio; la storia degli uomini diviene veramente il segno di una presenza attiva di Dio che ti parla, ti cerca, si comunica a te; soprattutto l’uomo appare e si fa il sacramento di Dio.
Non si supera l’uomo per giungere a Dio, perché non si supera il Cristo. Nel Cristo, per sempre, Dio e l’uomo sono uno. La vita religiosa più alta è nella vita umana più piena, più pura. Chi giunge alla santità non cessa di essere uomo, è anzi allora che egli è uomo perfetto.
Introduzione al breviario, Ed. San Paolo, pp.79-81