Madonna del Sasso, 9 aprile 2020
Giovedì Santo
Mai come quest’anno sentiamo la responsabilità di vivere questo Triduo pasquale con impegno religioso profondo e adesione assoluta al Mistero. Rispetto all’abituale esperienza dello scorrere del tempo liturgico, che viviamo quasi come una realtà scontata, colgo in me oggi una percezione nuova, inedita, della gratuità del dono che riceviamo da Dio Padre che ci invita anche quest’anno a partecipare alla Pasqua del Figlio Suo. Con l’odierna liturgia vespertina – la Messa ‘in Coena Domini’ – entriamo nel cuore di questo Mistero, che è quell’evento di morte e risurrezione che ha avuto per unico protagonista Gesù, Verbo incarnato, ha segnato la storia spezzandola in un ‘prima’ e un ‘dopo’ e insieme portandola al suo compimento, e che pure ci viene proposto dalla liturgia della Chiesa come un evento che ci tocca personalmente, l’evento unico della nostra redenzione, che dobbiamo far nostro perché non venga resa vana la croce di Crist , come scrive Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 1,17. Cfr. pure Gal 2,21).
A prima vista oggi, Giovedì Santo, ancor più dei giorni passati la condizione in cui anche noi ci troviamo, pienamente solidali con l’intera umanità che patisce tragicamente per la fragilità della natura umana, può apparire qualcosa di intollerabile, una contingenza storica mortificante alla quale vorremmo ribellarci perché violenta la nostra libertà di celebrare, come sempre abbiamo fatto, la Pasqua del Signore. Eppure, proprio perché crediamo fermamente che le nostre vite sono tutte e sempre nelle mani di Dio, Signore assoluto della storia, intuiamo che anche l’umiliazione che inevitabilmente dobbiamo subire può essere fonte di una maggiore comprensione del dono di grazia che è la Pasqua. Nulla ci è dovuto per diritti o meriti acquisiti davanti a Dio. La Chiesa stessa non ‘possiede’ per titoli personali nulla di quanto il Cristo suo Sposo continuamente le dona; ella è chiamata ad accogliere, custodire e trasmettere i tesori inesauribili che sono propri di Colui che li ha guadagnati a prezzo del Suo sangue e che glieli partecipa per amore gratuito. «Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso…», ci dirà proprio questa sera l’apostolo Paolo nell’introdurre la sua narrazione di quanto accadde quella sera nel Cenacolo (1Cor 11,23-26). E noi crediamo che nessuna potenza nemica potrà mai strappare alla comunità dei credenti questo tesoro di grazia: ella continuerà a difenderlo fino alla fine dei tempi anche a costo del sangue dei suoi figli martiri, come infinite volte è già accaduto in duemila anni di storia.
Ma la fonte segreta di questa forza di grazia è proprio la consapevolezza della gratuità del Dono ricevuto, con cui Dio stesso chiama i Suoi figli alla salvezza eterna convocandoli intorno alla duplice mensa della Parola e dell’Eucaristia. Certamente non è Lui che in questo tempo di prova ci vuole privare della gioia del sederci questa sera a mensa col Figlio e con i Dodici e di seguirLo, nei prossimi giorni, nel cammino verso la Pasqua attraverso l’esperienza misterica delle liturgie del Santo Triduo. Egli comunque sta permettendo questa umiliazione e ci chiede di accettarne il valore, per noi oggi ancora imponderabile, ai fini di una purificazione della nostra adesione a Lui. Per questo siamo certi che, se in questi giorni sarà Lui, Gesù benedetto, ad essere ugualmente al centro dell’attenzione esclusiva dei nostri cuori, non resteremo affatto privi di quella grazia che solitamente attingiamo alla fonte santissima della liturgia. Faremo Pasqua lo stesso col nostro Gesù, e nel giorno dopo il sabato (Gv 20,1) ci ritroveremo anche quest’anno col cuore stupefatto e traboccante della Sua grazia pasquale.
Mi sembra che quanto il Signore annunciò ai Suoi proprio durante la Santa Cena, spiegando loro ciò che stava avvenendo – anche se a Simon Pietro dovette dire: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7) – ci aiuti anche in un modo nuovo e tutto particolare a comprendere e a valorizzare la prova che in questo tempo ci sta affliggendo.
Questa sera dunque facciamo memoria della Cena del Signore, anche se per la gran parte di fedeli questa celebrazione non comporterà la partecipazione alla liturgia eucaristica se non attraverso i mezzi di comunicazione, che porteranno – purtroppo solo virtualmente – nelle loro case l’azione liturgica.
Dei tanti contenuti e messaggi che essa può rivelarci, mi fermo ovviamente soltanto su un aspetto.
L’evangelista Giovanni, a prima vista stranamente, per non dir proprio deludentemente, nel suo racconto di quanto avvenne quella sera nel Cenacolo non dice nulla dell’istituzione dell’Eucaristia. Eppure la Chiesa proprio oggi, giorno dedicato per eccellenza all’istituzione dell’Eucaristia, ci propone nella Messa una pagina tratta dal vangelo di Giovanni e non da uno degli altri evangelisti. E sono questi tre invece – Matteo (26,20-35), Marco (14,17-26) e Luca (22,14-38) – che ci narrano il gesto eucaristico del Signore, la fractio panis, e tra loro soprattutto Luca ci propone particolari interessanti che ci aiutano a cogliere dimensioni importanti di quell’evento. Paolo poi, l’ho già accennato, ci consegna anche lui la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia e gli esegeti anzi ci dicono che questo suo racconto, dal momento che precede la redazione dei Vangeli, è la prima versione in assoluto – e dunque la più preziosa – del racconto della Cena del Signore (1Cor 11,23-26). Giovanni invece, come tutti sappiamo, oltre a riportare, lui solo, il grande discorso di addio che il Signore rivolse ai Dodici nei capitoli 14-16 del suo vangelo e la grande preghiera sacerdotale al Padre nel capitolo 17, ricapitolativa di tutta la Sua missione messianica, ci narra pure qualcosa che né gli altri evangelisti né Paolo ci dicono: il gesto stupefacente di Gesù, che nel bel mezzo della cena – … mentre cenavano…, scrive l’evangelista: e dunque non prima di sedersi a mensa, ed è un particolare importante -, si alza, si toglie il mantello, ci cinge di un asciugatoio e si china davanti ad ogni discepolo per lavar loro i piedi (Gv 13,2-15). A Simon Pietro, che vorrebbe evitare al Maestro questo gesto di grande umiliazione e con insistenza Gli oppone il suo rifiuto – «No, Tu non mi laverai mai i piedi!» – Gesù dona una parola di così grande profondità di amore che lo mette con le spalle al muro, provocandolo nel suo desiderio intenso di stare sempre con Lui: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Ecco il fine della Pasqua di Gesù, il compimento della Sua missione tra gli uomini voluto dal Padre: renderci idonei ad ‘aver parte’ con Lui – échein méros sono le parole greche -, stabilirci in una comunione con Lui che dà un senso del tutto nuovo alla vita presente e insieme ci apre alla speranza nella vita eterna. Ma ci chiediamo: qual è il motivo di fondo di tutto questo? Perché per il Signore è così importante l’averci con Sé, tanto da affrontare la passione e la morte per strapparci al potere di un nemico, che non sopporta che la creatura umana abbia relazione con Dio? E’ sempre Giovanni che ci svela la causa fontale e finale dell’atto redentivo compiuto dal Figlio eterno nei nostri confronti, quando apre proprio il suo racconto della Cena, che è anche l’introduzione a tutto il racconto della passione di Gesù, affermando: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine – eis télos egàpesen –. Questo amore consumato ‘fino alla fine’ è ciò che riempie il cuore divino-umano del Cristo e da esso trabocca, invadendo la nostra vita. Ed Egli ci chiede di comprenderlo e di corrisponderlo, questo amore. Ricorderete certamente l’augurio mirabile che Paolo rivolge ai cristiani di Efeso: Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio. E’ questo il motivo per cui l’apostoloPaolo, in perfetta sintonia di cuori col Cristo di Gv 13, prega intensamente Dio Padre, come leggiamo nella lettera agli Efesini al capitolo terzo (Ef 3,17-19). La comprensione dell’amore di Dio, di quell’amore che nel gesto della lavanda dei piedi ha una sua ‘icona’ tra le più sconvolgenti. E come non ricordare ancora le parole dell’Apostolo, che commovevano profondamente il nostro padre, gli spezzavano la voce in gola ogni volta che, ripetendole, le faceva assolutamente sue: Sono stato crocifisso con Cristo, non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio (Gal 2,19-21). Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me: quante volte abbiamo ascoltato queste parole sulle labbra di don Divo!
Fare Pasqua dunque anche per noi oggi deve voler dire lasciarci ‘lavare i piedi’ da Gesù Santissimo per sperimentare e comprendere la realtà abissale del Suo amore per noi. La lavanda dei piedi evoca la morte di croce e ce ne svela anticipatamente il contenuto salvifico come atto di amore assoluto. Dobbiamo confessare a noi stessi che la comprensione di questo mistero, che è il nocciolo della Pasqua, ci supera sempre. Anche noi sentiamo di dover fare il cammino di cui Gesù parla a Simon Pietro, da un ‘ora’ – «… tu ora non capisci…» – a un ‘dopo’ – «… capirai dopo…» –. Il mistero dell’amore redentivo è infinito e in-comprehensibile, in senso letterale: ‘che sfugge ad ogni possesso’, come il mistero stesso di Dio, perché Dio è amore, ci dice Giovanni nella sua prima lettera(1Gv 4,8.16). Solo l’azione dello Spirito Santo in noi, frutto pieno della Pasqua di Gesù, può renderci percorribile questo cammino e renderlo fruttuoso, trasferendoci da quell’ ‘ora’ a quel ‘dopo’. Pensiamo al mistero della Pentecoste (Cfr. At 2,1-4), ma anche alle effusioni dello Spirito Santo da parte di Gesù sin dalla croce nel momento della Sua morte (Cfr. Gv 19,30), a quella nel Cenacolo la sera stessa del giorno della risurrezione (Cfr. Gv 20,22).
La Pasqua vissuta nella liturgia è il ‘kairòs’, il tempo più opportuno, per realizzare una comprensione sempre più piena e profonda del Mistero della salvezza. Una comprensione non solo intellettuale, soprattutto esperienziale. O stolti Galati, chi vi ha incantati? – è l’accorato rimprovero di Paolo ai Galati – Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso! … Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne? (Gal 3,1-3). Senza l’esperienza pasquale – nel mistico procedere dei nostri cuori dalla Cena nel Cenacolo fino all’effusione dello Spirito il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione – non possiamo capire nulla e la verità del Vangelo resta per noi una semplice dottrina. Ma “fare Pasqua” è molto di più! E’ ‘avere parte con Lui’.
Il valore della mediazione liturgica sta proprio in questo. La liturgia non ripete, non duplica l’Atto del Cristo, che si è compiuto e consumato una volta per tutte. Non si tratta di una “sacra rappresentazione”, di una drammatizzazione teatrale: per ogni Messa si tratta proprio di quell’Atto divino-umano, di cui il Kyrios morto e risorto è stato ed è tuttora unico Protagonista – quell’Atto, proprio quello, non la ripetizione di esso – reso presente e a noi accessibile mediante la mediazione ecclesiale. Una mediazione che, per la grazia dello Spirito che opera in noi-Chiesa, nella Liturgia ci fa ‘comprotagonisti’ col Cristo. Sant’Agostino parlava a tal proposito del ‘Christus totus’: Cristo è il capo e noi siamo Sue membra. Lo Spirito realizza in noi questo mistero, senza che noi ci sostituiamo al Kyrios, che è e resta il Protagonista unico dell’Atto che si compie nella Liturgia. Non si duplica l’Evento e non si duplica neppure il ruolo del Cristo, Sommo Sacerdote nel sacrifico eucaristico e anche, è bene ricordarlo, soggetto primo della preghiera salmica nella Liturgia delle ore; eppure noi-Chiesa siamo coinvolti. Dunque, ‘aver parte con Gesù’.
I teologi parlano di una partecipazione ‘passiva’ al dono che Gesù ci fa nella Sua Pasqua, e di una partecipazione ‘attiva’, che è l’aver parte anche alla sua missione. Questa sottolineatura ci porta a fermarci sulla seconda parte del racconto evangelico di questa sera. «Capite quello che ho fatto per voi? – chiede Gesù agli Apostoli, tornato a sedere a mensa con loro dopo aver lavato loro i piedi – Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica». Alla scuola dei Padri della Chiesa anche noi oggi cogliamo due dimensioni del gesto compiuto dal Signore: quella del suo valore simbolico, per cui esso va accolto come ‘sacramentum’ dell’ormai prossima morte di Gesù, e quella del suo valore paradigmatico, esemplare, per cui esso è anche ‘exemplum’, modello di servizio di umiltà.
Benedetto XVI, nelle sue splendide riflessioni su questa pagina evangelica, ha sottolineato che il passaggio dalla prima alla seconda dimensione – da quella del simbolo a quella dell’esempio – non è da intendere come “un’appendice morale al mistero […]. La richiesta: «… anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri … Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi…» deriva – ha scritto papa Benedetto – dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è Suo. Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola col Suo.” E continua Ratzinger, grande teologo: “La vera novità del ‘comandamento nuovo’ – lo ricordate: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34) – La vera novità del ‘comandamento nuovo’ non può consistere nell’elevatezza della prestazione morale. L’essenziale proprio anche in queste parole non è l’appello alla prestazione somma – l’amore cioè consumato fino al sacrificio della propria vita per gli altri -, ma il nuovo fondamento dell’essere che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere noi in Lui. […] Ciò che conta – conclude Benedetto XVI – è l’inserimento del nostro io nel Suo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20).”
Sulla base di questa riflessione teologica – perfettamente sintonica con quanto il nostro padre ci ha sempre insegnato, quando ci metteva in guardia dal ridurre il cristianesimo a una semplice morale – cogliamo un secondo messaggio quanto mai attuale per noi, facendoci guidare da un altro grande esegeta, più che teologo, francese, il padre Xavier Leon-Dufour. Accostiamo per questo al gesto della lavanda dei piedi l’altro gesto compiuto da Gesù e narratoci dai sinottici, e da loro collocato proprio là dove Giovanni colloca la lavanda dei piedi: … mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò… poi prese il calice… (Mt 26,26; cfr. Mc 14,22-23, Lc 22,19-20). Con entrambi questi gesti, nei quali il Suo amore per gli uomini, per ciascuno di noi, si rivela fino all’estremo, il Signore – nota p. Leon-Dufour – “fonda la comunità dei discepoli sul dono di Sé”. Se questo Suo donarsi per sempre “rimane il principio costitutivo della Chiesa e determina la sua regola di vita”, i due gesti da Lui realizzati una volta per sempre in quella sera costituiscono in realtà un unico atto divino. Non per nulla Gesù stesso del gesto eucaristico dice: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), e dopo la lavanda dei piedi dice ai Suoi: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi… anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. » (Gv 13,14-15). Questo unico, identico comando di Gesù ai Suoi perché quanto Egli ha fatto fosse perpetuato nel tempo diventando un atto ecclesiale, ci svela una verità di capitale importanza. E’ stato notato infatti che con esso Gesù istituisce come un duplice ‘memoriale’ della Pasqua del Signore: il ‘memoriale cultuale’, che è la liturgia eucaristica, lo spezzare il pane durante la Messa, e il ‘memoriale esistenziale’, che è l’esercizio concreto della carità, frutto anch’esso della Pasqua di Gesù. Facciamo Pasqua quando celebriamo i misteri liturgici, ma facciamo Pasqua anche quando obbediamo al ‘comandamento nuovo’ esercitando la carità.
Oggi, Giovedì Santo, riscopriamo dunque che ogni atto di carità autentica, di vero amore, è tale perché ha un autentico contenuto pasquale. La sorgente della carità sta infatti nel cuore del Mistero pasquale: è quella Croce, segno massimo dell’amore divino, che è resa presente a noi nell’Eucaristia. Che cos’è infatti la Messa se non il mistero del rendersi presente qui e ora del sacrifico di Gesù? Ogni forma di amore cristiano non è che prolungamento ed espressione concreta dell’amore che Cristo rivela e partecipa ai Suoi in Gv 13,1-17, attraverso il Suo gesto di servizio, la lavanda dei piedi, espressione di inaudita e davvero tutta divina umiltà. Questa sera abbiamo quindi davanti ai nostri occhi una realtà meravigliosa: il fondamentale legame tra la morte di croce del Signore, il Mistero eucaristico – la Santa Cena – e l’esercizio concreto della carità.
L’Eucaristia, nel suo ruolo genetico nei confronti della carità, ce ne svela, oltre che il contenuto pasquale, il suo valore salvifico. Ma non possiamo certo essere noi a dare efficacia salvifica alla carità che esercitiamo; è Dio stesso, il Risorto, che lo fa attraverso l’azione del Suo Spirito nei nostri cuori. L’amore è essenzialmente Atto divino perché Dio è amore, ci ha già ricordato Giovanni (1Gv 4,8.16), e noi possiamo farlo nostro solo come dono gratuito di Dio. Imparare ad amare infatti è esperienza di pura grazia. L’amore di Dio – afferma san Paolo – è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato donato (Rom 5,5). Amiamo non solo “per” amore del Signore o “come” Lui ci ama- per la fragilità della nostra natura questo ci sarebbe impossibile -, ma noi amiamo “poiché” Lui ci ama, “in conseguenza del” Suo amore, “in continuità” del Suo amarci, grazie al dono che Egli ci fa del Suo Spirito , del Suo medesimo amore – ‘kathòs’ è la preposizione greca usata dall’evangelista per svelarci questa meravigliosa verità (Gv 13,15) -. Ecco allora il pieno realizzarsi del nostro ‘aver parte con Lui’ nella duplice dimensione passiva e attiva, già notata all’inizio di questa nostra riflessione. Si impara ad amare in forza dell’amore che si riceve. Questa legge è propria dell’uomo sia nella sfera naturale sia in quella soprannaturale. Si impara ad amare, come Gesù ci fa grazia di fare, soltanto se ci facciamo ‘lavare i piedi’ da Lui nell’accogliere umilmente il dono salvifico della Sua morte di croce, che nell’Eucaristia ha il suo sacramentum perenne. E’ davvero mirabile – lo ripeto – il legame tra Croce, Eucaristia ed esercizio di carità!
E’ proprio perché la carità ha nell’Eucaristia la sua fonte, che anch’essa – la carità intendo – partecipa di una certa sacramentalità: rende cioè viva e percepibile la presenza del Risorto tra di noi e ci porta salvezza. Ecco la dimensione liturgico-sacramentale dell’esercizio della carità fraterna, quella che la santa madre Teresa di Calcutta chiamava “amore in atto”.
Gesù nella morte di croce, da Lui esemplificata nel gesto della lavanda dei piedi e resa attuale per noi liturgicamente nella Messa, ha compiuto un gesto definitivo di accoglienza nei nostri confronti; ed è così che riceviamo da Lui, e da Lui solo, la salvezza. Ed Egli in cambio di questo dono, cosa ci chiede, cosa vuole da noi per Sé…? Una risposta di amore, certamente, ma che si dilati nelle dimensioni infinite del suo stesso amore per tutti. Questa risposta Egli l’attende da noi mediata dalla carità fraterna tra di noi. E questo è davvero stupefacente! «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,34-35). Il “come” dell’amore – come io ho amato voi – anche qui è espresso dalla stessa preposizione greca ‘kathòs’, che ricorre nelle parole di Gesù dopo la lavanda dei piedi, e che esprime la conseguenzialità, il dipendere, del nostro amarci tra di noi dal sentirci ancor prima amati da Lui. Anche quando ci amiamo come fratelli termine ultimo del nostro amore non siamo noi: è Lui, Dio, da noi incontrato nel Figlio fattosi uomo e nei fratelli, sacramenti vivi della Sua presenza.
La stessa verità aveva insegnato Gesù alle folle con le parole «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La nostra accoglienza dei Suoi “fratelli più piccoli” è risposta al Suo amore personale per ciascuno di noi. Gesù infatti con quelle parole identifica Sé stesso con i piccoli, i poveri, da Lui chiamati “i miei fratelli più piccoli”. In essi Lui è ‘presente’ e dunque per noi raggiungibile. E’ questa l’interpretazione teologica, propriamente cristologica, più che moralistica che don Divo dava al discorso di Gesù sul giudizio finale; e ben si accorda con quanto oggi questa nostra riflessione ci ha portato a ricomprendere.
Riportiamoci, per concludere, a questo nostro ‘oggi’, così pesantemente segnato dall’impossibilità di celebrare le liturgie del Triduo Pasquale in forma pubblica e comunitaria. Quanto abbiamo ora insieme meditato penso possa aiutarci a trovare conforto e a sentirci meno prigionieri di una situazione imposta dall’alto. Se la celebrazione del ‘memoriale cultuale’ ci appare quest’anno penosamente mortificata nella sua dimensione comunitaria – ma non dimentichiamo che tutti i riti del Triduo vengono ugualmente celebrati anche se non in forma pubblica -, tutti possiamo comunque celebrare in questi giorni santissimi il ‘memoriale esistenziale’ della Pasqua di Gesù nell’esercizio di una carità ancor più generosa del solito, fatta di azioni concrete e prima ancora di intensissima preghiera personale, e specificatamente orientata a colmare, per così dire, il vuoto liturgico. Questo imprevisto e mortificante ‘digiuno’ – mai ci saremmo aspettati di viverlo… – sia per tutti occasione per riaccendere nel cuore quella ‘fame e sete di Dio’ che tante volte cantiamo nelle nostre salmodie, forse senza renderci conto di cosa voglia dire veramente essere affamati e assetati di Lui e della Sua grazia, dono imprescindibile se vogliamo davvero vivere, e non solo celebrare con canti e riti più o meno solenni, la Pasqua di Gesù nella nostra vita. Che il Signore ci dia la grazia di vivere tutto questo e di fare Pasqua anche quest’anno con Lui.
p. Agostino