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L’amore di Dio rovesciato sul mondo

Omelia di Divo Barsotti, 22 marzo 1985 – (Domenica delle Palme)

La liturgia di quest’oggi è estremamente complessa: sembrerebbe che fossero uniti due tronconi che non creano per sé l’unità. È una liturgia di gloria: non per nulla abbiamo la veste di colore rosso e abbiamo iniziato acclamando al Cristo che, entrando in Gerusalemme, veniva in qualche modo proclamato dal popolo il re messianico. Era l’intronizzazione del Re. È dunque un atto di gloria.

Poi invece abbiamo letto la Passione del Signore.

Come si uniscono questi due avvenimenti? Lo sappiamo precisamente dalla stessa liturgia e anche dal pensiero dei Padri, ma prima ancora dal pensiero stesso degli evangelisti, dalle parole stesse di Gesù. Voi avete ascoltato quello che dice Gesù dinanzi al Sommo sacerdote: “Da oggi in avanti voi vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra del Padre” (cfr. Mt 26,63). Era un condannato, sapeva che cosa lo aspettava: non solo la morte, ma la morte di croce, la morte più spaventosa, la morte riservata agli schiavi. E tuttavia proprio in quel supremo momento si proclamava Figlio di Dio, uguale al Padre. E ben compresero i sommi sacerdoti le parole di Gesù: si stracciarono infatti le vesti e dissero: “Non abbiamo più bisogno di accuse: abbiamo ascoltato con i nostri orecchi la bestemmia” (cfr. Mt 26,65). E dunque è Gesù che unisce la suprema ignominia alla glorificazione indicibile che Egli fa di Se stesso: Figlio di Dio nella sua morte. Dice l’Inno dei vespri che abbiamo cantato: “Regnavit a ligno Deus” (Dio ha regnato dal legno; Inno Vexilla regis). E dice anche Gesù nel IV vangelo: “Quando sarò innalzato da terra trarrò tutto a me” (Gv 12,32). È proprio l’essere crocifisso e sospeso su un patibolo infame che fece di Lui colui che redimeva il mondo e lo riacquistava, ne faceva il suo possesso: Regno suo e del Padre.

Allora la celebrazione di questo giorno è celebrazione di gloria sotto il segno dell’umiltà, è celebrazione di trionfo sotto il segno dell’umiliazione suprema. In Gesù si congiungono gli estremi: Egli assume il peccato del mondo, Lui che è il Figlio di Dio. E proprio perché assume il peccato del mondo, Lui, che è il Figlio di Dio, lo cancella, riempie il vuoto infinito che sussiste tra la creazione e il Creatore con l’infinito suo amore.

Ora non conviene fare tanti discorsi per chiarire a noi la grandezza del mistero che siamo per celebrare. Conviene piuttosto ricordarci che il mistero del Cristo continua: nella nostra umiltà noi siamo i figli di Dio. E tanto più noi siamo garantiti di essere partecipi della gloria che è propria del Figlio, tanto più in questo mondo viviamo il nascondimento, l’umiltà, la sofferenza, la morte. Anche in noi continua e si fa presente il mistero di questa unione degli estremi: l’umiltà con la gloria, la povertà con il regno, il nascondimento con il trionfo. Dobbiamo per questo cercare di vivere quella fede che ci è chiesta contemplando e partecipando in questi giorni al mistero del Cristo. Dobbiamo vivere quella medesima fede nei riguardi nostri: troppe volte noi scegliamo una parte della verità e allora ci sentiamo oppressi, stanchi e sfiduciati perché le prove si accumulano sopra di noi, perché noi ci sentiamo degli emarginati, perché noi ci sentiamo umiliati dalla nostra vita, messi da parte, e non consideriamo che questo è l’aspetto che è significativo di un’altra realtà che è la realtà di un nostra grandezza, la realtà di una nostra elezione. È nella misura che

veramente noi viviamo e partecipiamo a questa umiliazione del Cristo che noi siamo anche uniti a Lui che è Figlio di Dio.

Altre volte invece noi ci leghiamo soltanto all’aspetto che sembra positivo, ci gonfiamo interiormente perché siamo giovani, perché abbiamo dei buoni successi nella vita, perché tutto sembra facile nel nostro cammino… e non ci rendiamo conto che tutto questo – se non è legato a una partecipazione alla passione del Cristo – già di per sé ci esclude dalla vera gloria, ci esclude dalla vera partecipazione alla sua vittoria e al suo trionfo.

Il mistero del Cristo è precisamente questa unità degli estremi, unità degli estremi che sarà sempre presente nel mondo fintanto che nel mondo sarà presente la Chiesa. E io come amo questa Chiesa ora vilipesa, questa Chiesa umiliata, questa Chiesa che sembra sempre più emarginata nel mondo di oggi… come amo questa Chiesa, segno davvero di una presenza di Dio! Oh, come non desidero affatto nessun trionfo, nessun successo per la Chiesa e per gli uomini di Chiesa. Come invece desidero per loro lo stesso destino che ha scelto Gesù. Ma quel lo che è vero per la Chiesa è vero anche per me: desiderare un trionfo umano, credere che Dio debba servire alle nostre ambizioni terrene, è in fondo non capire nulla di quello che è il Cristianesimo, perché noi non possiamo né potremo mai dissociare nel mistero del Cristo – che viene reso presente nelle sue membra; noi siamo il suo corpo, fino alla fine dei tempi – l’umiltà dalla gloria, non può dissociarsi la vita dalla morte, non può dissociarsi la sofferenza dalla beatitudine stessa di Dio.

È questo il mistero che celebriamo nel giorno di oggi. Gesù entra in Gerusalemme come re messianico. Il suo ingresso nella santa città è l’inizio veramente del Regno: “Ecco Colui che viene, il re, il figlio di Davide!” (cfr. Mc 11,9-10); così lo acclamavano i fanciulli. E dice Gesù a coloro che li rimproverano perché non li fa tacere: “Se essi tacessero, griderebbero le pietre!” (cfr. Lc 19,40). Veramente dunque in quel momento, in quell’istante, iniziava il Regno di Dio; veramente in quell’istante prendeva possesso del Regno il Signore, ne prendeva possesso in quanto, assumendo il peccato del mondo, doveva essere condannato, ma nella sua stessa condanna Egli avrebbe distrutto il male del mondo.

Come lo distruggeva? Ecco il problema. La cosa è molto semplice, in fondo. Che cos’è il male, il male che Gesù ha voluto prendere sopra di sé? Non è certo il peccato come tale – perché Egli non ha fatto peccato – ma ha preso su di sé gli effetti del peccato che sono la distruzione stessa dell’essere, sia per quanto riguarda il suo corpo, la sua vita fisica, sia per quanto riguarda la sua anima, la sofferenza morale. Non solo: anche la sofferenza spirituale, la desolazione dell’anima sua, il sentimento dell’abbandono del Padre. È stato schiacciato, è stato calpestato, è stato conculcato: nulla è rimasto sano in Lui. E questa visione del Cristo è veramente qualcosa che noi non tolleriamo: vedere Gesù, contemplarlo nella sua passione, è veramente qualcosa che supera la nostra possibilità di resistenza. Non riusciremmo a guardarlo, non riusciremmo a contemplarlo in quella sua umiliazione. Veramente non è più un uomo, ma un verme (cfr. Sal 22,7).

Però, ecco, perché nell’assumere tutto questo male Egli vince? È semplice: perché il male, per sé, è l’effetto del peccato. In Lui il male era l’atto supremo dell’amore: Egli non doveva conoscere sofferenza, Egli non dove va conoscere la morte, Egli non doveva conoscere umiliazione, tantomeno doveva conoscere l’abbandono del Padre. Ma tutto questo l’ha assunto per amore: la

sua passione è Lui che l’ha voluta, e l’ha voluta per donare a noi la sua vita. Quello che era dunque l’effetto del male è divenuto manifestazione e prova di un amore infinito, di un amore immenso. Il male si è rovesciato, è divenuto il segno dell’amore di Dio: Dio si è fatto presente per noi in quella umiliazione suprema. E non vi è rivelazione più alta di Dio che quella umiliazione, e non vi è rivelazione più alta di Dio di quella morte, perché mai Dio ha rivelato talmente Se stesso come quando ha rivelato questa infinita tenerezza di amore per la quale ha scelto di prendere sopra di Sé tutto il male del mondo per donare a noi la sua vita. Ecco Dio chi è.

Non è tanto dunque né la sofferenza né la gloria che contano: gloria e sofferenza sono aspetti di un solo mistero che è l’amore di Dio, un amore che si è rovesciato nel mondo e ha colmato tutti gli abissi, un amore che si è rovesciato nel mondo e ha sollevato il mondo fino a Dio.

Questo noi contempliamo, questo dobbiamo contemplare in questi giorni di Passione. Fermarci soltanto a considerare la morte, a considerare la passione del Signore, è insopportabile. Lo dicevo pochi giorni fa. Una volta mio fratello mi disse: “Leggi un po’ questa pagina”. E mi presentò Il ponte sulla Drina di Ivo Andric [il romanzo fu pubblicato nel 1945, ndr], il più grande romanziere jugoslavo. Era la descrizione di un impalamento: un povero diavolo, un povero uomo che veniva impalato dai turchi, perché aveva fatto crollare un ponte, il ponte sulla Drina. Non sopportai: lessi alcune righe e poi gli detti il libro. “Non riesco a leggerlo, non posso leggerlo”. Un impalamento… Ma se noi considerassimo la morte di Cristo sarebbe ancora peggiore, perché là era una sofferenza fisica, umana, bestiale. Qua non è soltanto una sofferenza fisica, è una sofferenza di tutte le specie: fisica, morale, spirituale. Su tutte le potenze del Cristo il male si è rovesciato e l’ha totalmente distrutto. Non potremmo sopportare la passione. D’altra parte il contemplare la gloria del Cristo ci fa sentire così diversi da Lui. Non si tratta di contemplare né la morte né la gloria: si tratta di vedere nel Cristo la rivelazione suprema dell’amore di Dio, di questo Dio che ha voluto scendere in un abisso più fondo dell’abisso nel quale siamo discesi; per poter risollevare tutto il mondo a Sé Egli è disceso fino nelle radici stesse del mondo e tutto lo ha sollevato fino alla gloria del Padre. La passione del Cristo è la rivelazione di questo amore immenso, di questo amore infinito.

Ci crediamo? Si tratta precisamente di credere perché umanamente parlando il segno rimane sempre il male, il segno rimane sempre l’umiltà, il segno rimane sempre la morte. E se non ci fosse la fede davvero quello che la Chiesa ci insegna sarebbe solo pazzia. Non per nulla dice Paolo, che la croce è pazzia per i pagani e scandalo per i giudei (cfr. 1Cor 1,23). Anche per noi sarebbe così e non sarebbe altro che così. Ci vuole certamente la fede, ma chi ha la fede allora può contemplare questa presenza di un Dio che ancora ci ama e ci fa partecipi del suo stesso mistero, unendoci a Sé, anche nell’umiltà, anche nella povertà della nostra condizione umana, per farci però anche partecipi della sua dignità di Figlio, per elevarci a sé e colmarci del suo medesimo amore.

Oggi non si può meditare la passione, oggi non si può nemmeno considerare soltanto l’acclamazione dei fanciulli: si devono vedere questi due aspetti uniti in Cristo perché si manifesti a noi l’amore infinito di Dio.