Sentire che il mondo cinese, il mondo indiano è il nostro mondo; non vivere soltanto una civiltà come nostra civiltà, ma vivere in una simpatia viva verso ogni espressione di vita, verso ogni aspirazione umana, ma riassumere in noi tutti i bisogni umani, tutte le pene umane, tutti i peccati degli uomini come nostri, come fa Gesù.
Non sentire estranei a noi nessuno, né i poveri né i ricchi, né i malati, né i carcerati, né i vescovi, né gli umili, nessuno; non sentire estranei a noi non solo gli uomini che vivono oggi, ma gli uomini che vivevano migliaia di anni fa, le civiltà antiche ormai sepolte… Migliaia e migliaia di anni sono vissuti gli uomini prima che la storia parlasse di loro! Riviviamo noi questa oscura ricerca di Dio propria di millenni e millenni di storia umana, che è caduta come nel buio, che è come sommersa nella tenebra? Riviviamo noi questa ricerca ansiosa, paurosa, dolorosa dell’uomo, di una ragione, di un senso della vita, prima che Dio chiamasse Abramo? Riviviamo noi tutto questo? Eppure ciascuno di noi deve rivivere in sé tutto il travaglio umano, tutta la storia umana. Nel nostro povero atto, nella nostra povera vita, noi dobbiamo farci contemporanei di tutte le età, fratelli di tutti gli uomini, vicini ad ogni essere vivente: nella nostra misera vita, non soltanto contemporanei di tutti, ma prossimi a ciascuno.
Quant’è grande il Vangelo! L’amore cristiano che è amore universale, che non conosce limiti in sé, si chiama amore del prossimo. Come può essere universale se è amore del prossimo? Se è del prossimo non è amore dei lontani? Ma non esistono più lontani, tutti sono divenuti prossimi a te, tu sei contemporaneo di tutte le età. Uomini che sono morti cinquantamila anni fa, centomila anni fa, sono tuoi contemporanei: tu ne vivi la vita, tu devi riassumere la loro pena nella ricerca di Dio. Tu devi vivere l’ingenua ricerca di una divinità propria di queste anime che emergevano appena dal buio dell’incoscienza e della barbarie; tu devi vivere la vita di ognuno come tua propria, devi assumere il peccato di ognuno come il tuo proprio peccato, devi sentire nelle tue membra il tormento, la sofferenza, il dolore, il bisogno di ogni anima. Non è mica facile! Chi di noi può vivere una tale perfetta carità? Eppure è la nostra vocazione perché siamo chiamati a questo amore. La vocazione monastica ci chiama a realizzare l’unità della Chiesa in noi stessi. Ognuno di noi tutto; in Cristo è stata ricomposta l’unita dell’uomo. In quanto persone certo ci distinguiamo gli uni dagli altri, ma non possiamo separare più alcuno da noi. Noi siamo uno, il solo Cristo; siamo una sola cosa tutti, siamo un solo essere, una sola vita.
Vivere questa universalità: ecco l’impegno nostro. Così, proprio così, si collabora più efficacemente all’unità stessa della Chiesa, a quella unità della Chiesa che apparirà piena e perfetta solo dopo questo tempo, dopo questa economia presente, quando l’imperfezione propria della condizione umana sarà finalmente superata e visibilmente risplenderà la redenzione che già ogni anima vive nel suo intimo cuore.
Vi sembra che quello che ho detto sia un po’ troppo per aria? Ma si deve tendere a questo.
Dal Ritiro del 16 gennaio 1959 a Viareggio