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Il messaggio del Cristianesimo è la gioia e la ragione di questa gioia è l’imminenza della venuta del Signore. Ma altra cosa è la ragione e altra la condizione: infatti, pur esistendo la ragione della gioia, l’anima potrebbe non esser capace di accoglierla, e non è capac e di accoglierla se non realizza certe condizioni.

La condizione necessaria ad accogliere questa gioia è detta dal tempo in cui questo messaggio di gioia viene annunziato alla Chiesa: tempo di penitenza. La gioia cristiana fiorisce sull’albero della Croce. Siamo testimoni della gioia, ma prima dobbiamo cercare di vivere in quel digiuno dal mondo che è condizione della gioia cristiana. Possiamo sperare di possedere Dio nella misura che siamo distaccati dalle cose.

L’annunzio della gioia cristiana è prima di tutto esigenza di mortificazione, di rinunzia. L’anima possederà Dio nella misura che è vuota di sé, e desidererà Dio nella misura che è libera da ogni attaccamento.

Per le anime che hanno il loro bene e la loro felicità soltanto nella vita presente la morte è il peggiore dei mali. Bisogna che l’anima si abitui a distaccarsi da tutto e trovi tutto in Dio. È estremamente difficile vivere la gioia cristiana perché è difficile vivere in questo vuoto. L’anima deve essere aperta solo a Dio, volgersi solo verso l’alto.

Sembrerebbe che il momento più adatto per cantare la gioia fosse il tempo pasquale, invece la Chiesa ce la fa cantare nell’Avvento e nella Quaresima. L’Avvento ci dice: «Possederai Dio se la tua anima cerca Lui solo». La Quaresima ci dice: «Possederai Dio solo nella misura che il tuo cuore sarà spoglio e crocifisso». Due sono dunque le condizioni: 1) non avere altro desiderio, altra speranza che Dio; 2) povertà: non avere altro bene che Dio.

Esaminiamo il messaggio dell’Avvento: non avere altro desiderio che Dio. Viviamo davvero in questo avvento che è tutta la vita? In quest’attesa di Cristo? Che cosa chiediamo a Dio? Gli chiediamo non Lui ma qualcosa che Lui solo può darci: la felicità quaggiù, l’amore quaggiù, la stima degli uomini, una buona sistemazione…? Anche noi anime religiose siamo sempre preoccupate perché ci mancano cose materiali a cui si potrebbe e si dovrebbe rinunziare.

Vivere l’Avvento vuol dire aprirsi tutti a un solo desiderio: l’attesa di Dio. Noi, questa attesa, non la sentiamo; possiamo avere il senso della presenza di Dio, del possesso di Dio, ma il giorno di domani non rappresenta per noi una meraviglia, l’anima non vive nello stupore di quel che le è promesso.

Nell’Apocalisse il Signore è chiamato «Colui che era, che è e che viene» (Ap 1,4); non «che sarà» ma «che viene». Viviamo davvero in questa attesa? Se crediamo di conoscerlo già vuol dire che non l’abbiamo mai neanche incontrato. Dio è tale meraviglia che non può non essere una continua sorpresa. Noi non lo conosciamo se non viviamo tutti protesi nell’attesa del suo avvento. Siamo tutti un po’ vecchi nella vita spirituale, perché le cose hanno per noi un sapore di consuetudine, come se non ci fosse più nulla da aspettare. Ci disturba che Dio ci dia o ci chieda qualcosa di nuovo, che butti all’aria il piccolo covo che ci facciamo giorno per giorno. Non desideriamo con ansia Colui di cui crediamo conoscere ogni segreto.

Che l’anima Lo attenda viva nella speranza! Altrimenti non si avrebbe più gioia. Se il dono fosse sempre lo stesso la nostra anima sarebbe fiacca nel desiderio e non più protesa nello stupore, nella curiosità e nell’aspettazione.

Desiderio di Dio, attesa di Dio! L’Amore a te si dona e tutto puoi aspettare da Lui. Quel che Egli ti può dare è sempre nuovo e sempre supera ogni tuo pensiero, ogni tua aspettativa. Noi crediamo che ci aspettino sempre le stesse cose, invece tutto è nuovo. Tutti aspettiamo meraviglie nuove domani, ma le aspetteremmo con maggiore ansia se fossimo davvero distaccati. Non aspetteremmo i suoi doni ma Lui.

Questo è l’atteggiamento dell’anima; la gioia che deriva dalla speranza certa in Uno che rimane l’Ignoto, che è perpetua novità. «Ecce, Sponsus venit: exite obviam ei…» (Mt 25,6). «Amen: veni, Domine Jesu» (Ap 21,20). Tutte le cose ci dicono: «Ecce, Sponsus venit». Che l’anima esca di sé, dai suoi pensieri abituali, dalla sua vita abituale; allora potrà dire: «Veni, Domine Jesu».

Vivere in modo che ogni circostanza ci ripeta: «Ecce, Sponsus venit». Che l’anima sia tutta viva nel desiderio e nella speranza certa di un incontro imminente.

Ritiro del 16 dicembre 1956 a Casa San Sergio